TPP GRANDI OPERE Torino 5-8 Novembre 2015 Sentenza Testo finale in italiano

Version française – English version

Fondatore: LELIO BASSO (ITALIA)

Presidente: FRANCO IPPOLITO (ITALIA)

SESSIONE

DIRITTI FONDAMENTALI, PARTECIPAZIONE

DELLE COMUNITÀ LOCALI E GRANDI OPERE

Dal Tav alla realtà globale

TorinoAlmese, 58 novembre 2015

SENTENZA

via della Dogana Vecchia 5, 00186 Roma

Tel: 06/6877774

tribunale@internazionaleleliobasso.it

www.tribunalepermanentedeipopoli.fondazionebasso.it

COMPOSIZIONE DELLA GIURIA

Presidente:

Philippe Texier (Francia)

Già Consigliere della Corte di Cassazione francese, già membro e presidente del Comitato di diritti economici, sociali e culturali dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite

Componenti:

Umberto Allegretti (Italia)

Giurista, già docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Firenze, già direttore di “Democrazia e diritto”, studioso di democrazia partecipativa

Perfecto Andrès Ibáñez (Spagna)

Magistrato del Tribunal Supremo spagnolo e direttore della rivista “Jueces para la Democracia”

Mireillle Fanon Mendès France (Francia)

Presidente della Fondazione FrantzFanon e componente del Gruppo di lavoro di esperti per le popolazioni afrodiscendenti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite

Sara Larrain (Cile)

Ecologista e politica cilena, direttrice del Programa Chile Sustentable dal 1997

Dora Lucy Arias (Colombia)

Avvocata, componente del Consiglio direttivo del Colectivo de Abogados Josè Alvear Restrepo

Antoni Pigrau Solè (Spagna)

Professore di Diritto internazionale pubblico presso l’Universidad Rovira y Virgili di Tarragona, direttore del Centro de Estudios de Derecho Ambiental de Tarragona (CEDAT)

Roberto Schiattarella (Italia)

Economista, professore di Politica economica presso l’Università di Camerino

SEGRETERIA GENERALE

Gianni Tognoni (Italia)

Simona Fraudatario (Italia)


I. INTRODUZIONE

1.1. Storia e legittimità del Tribunale Permanente dei Popoli

Il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) è un organismo internazionale fondato nel 1979 con il proposito di rendere permanente la funzione che era stata propria dei Tribunali Russell sul Vietnam (1966-67) e sulle dittature latinoamericane (197476): garantire uno spazio di visibilità, di presa di parola, di giudizio sulle violazioni sistematiche dei diritti umani, individuali e collettivi, e dei diritti dei popoli, che non trovano risposte istituzionali dei singoli Paesi né nella comunità degli Stati. Il diritto internazionale è di fatto un ordinamento largamente imperfetto ed in difficile e controversa evoluzione, specialmente per quanto riguarda la qualificazione dei crimini contro i diritti umani con radici riconducibili a cause ed attori “economici” (esclusi anche dalla competenza della Corte Penale Internazionale), che sono di fatto sempre più protagonisti nelle società attuali,a livello di singoli paesi e nei mercati regionali e globali.

Questa collocazione del diritto internazionale rispetto alla posizione dominante delle ragioni economiche sui diritti umani e dei popoli è stata oggetto di analisi approfondita nella Sessione del TPP dedicata alla “Conquista del dell’America e il diritto internazionale (PadovaVenezia 1992). Il vizio di origine delle prime formulazioni dottrinali del diritto internazionale, e delle loro applicazioni operative, era molto chiaro: una conquista, e una imposizione fino al genocidio di modelli culturali e di ordinamenti sociali, venivano legittimate rivestendo interessi strettamente commerciali e rapporti di forza tra i poteri allora dominanti con motivazioni ideologiche e obiettivi dichiarati di un bene maggiore che doveva essere accettato a priori.

Le attività del TPP hanno con sempre più frequenza affrontato negli ultimi venti anni le implicazioni della gerarchia capovolta tra diritti umani ed economici. Certo con i limiti ovvi di effettività di un “tribunale di opinione”, che non può esercitare nessuna influenza che non sia quella dell’opinione pubblica nel senso forte di questo termine: il diritto di “dire il diritto” da parte dei popoli che ne sono il soggetto ed i garanti. La legittimità del TPP è nella sua stessa esistenza con funzione di denuncia, documentazione, resistenza ad una omissione e ad un silenzio di fronte alla realtà delle violazioni ai diritti fondamentali. L’analisi rigorosa dei fatti e delle lacune delle pratiche del diritto a livello nazionale ed internazionale fa memoria, per il presente e per il futuro, della priorità inviolabile dei diritti di vita e di dignità dei popoli concreti, la cui sovranità è l’unica fonte dell’autorità degli stessi Stati.

1.2. La Sessione su “Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere. Dal Tav alla realtà globale”

La Sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) che si è svolta nei giorni 58 novembre 2015 nella sede della Fabbrica delle E del Gruppo Abele per le udienze pubbliche e nel Teatro Magnetto, di Almese, per la lettura della Sentenza, rappresenta la conclusione di un lungo lavoro di preparazione che ha seguito rigorosamente quanto previsto nello Statuto del TPP.

Alla prima richiesta di prendere in considerazione la vicenda della progettazione e costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità TorinoLione, presentata l’8 aprile 2014, la Presidenza del TPP ha risposto con provvedimento del 20 settembre 2014 in modo affermativo, esplicitando le motivazioni della accettazione e le condizioni che dovevano essere tenute in considerazione nella preparazione della Sessione. Si rilevava in particolare:

§ la strettissima coerenza e continuità della richiesta con l’esperienza e le competenze del TPP, sviluppata e documentata in modo specifico nelle Sentenze sulle politiche del Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale (1989;1994), sui disastri di Bhopal (1992; 1994) e Chernobyl (1996) e nelle più recenti sentenze sulle imprese transnazionali in Colombia (20012008), sulle politiche dell’UE in America Latina (20062010) e sulle conseguenze dei trattati di libero commercio in Messico (20112014);

§ la specifica rilevanza, e l’attualità dello scenario dei fatti relativi alla Val Susa, per quanto riguardava la denuncia di una situazione conflittuale che aveva al suo centro la violazione sistematica del diritto fondamentale di una comunità ad essere soggetto imprescindibile e prioritario nei processi decisionali riguardanti il suo contesto e le sue condizioni di vita presenti e future;

§ l’importanza di approfondire e verificare l’interazione ed il rapporto gerarchico tra variabili e determinanti economico-finanziarie di una “grande opera” proposta come strategica a livello nazionale, e sostenuta a livello europeo, e gli obblighi relativi al rispetto dei diritti fondamentali degli individui e delle comunità nelle normative nazionali ed internazionali;

§ l’opportunità di valutare se e quanto il caso Val Susa poteva essere considerato come espressione di una situazione conflittuale locale, o dovesse essere inquadrato e confrontato con la situazione internazionale (europea e non solo) relativa alle grandi opere, per verificarne il possibile carattere di espressione esemplare di un problema sistemico a livello europeo e globale.

La presentazione-accettazione dell’atto di accusa riformulato tenendo conto dei commenti sopra ricordati (Allegato 2) apriva formalmente la fase istruttoria che portava alla Sessione pubblica inaugurale del processo il 14 marzo 2015 a Torino. Si apriva così anche il periodo di contatti con gruppi rappresentativi delle realtà italiane ed europee che, ad una prima verifica, risultavano più direttamente pertinenti con gli obiettivi del TPP. Per due di queste situazioni – in particolare, i casi dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes e del Mose di Venezia  si sono realizzate visite in loco da parte della Segreteria generale del TPP, mirate soprattutto a documentare la rappresentatività dei movimenti rispetto alla realtà delle comunità locali.

Secondo lo Statuto del TPP, le parti in causa indicate nell’atto di accusa sono state invitate (con posta raccomandata e con un richiamo successivo) a partecipare alla Sessione pubblica del TPP, direttamente o attraverso rappresentanti. Sono pervenute all’attenzione del Tribunale, in data 4 novembre 2015, due lettere a firma, rispettivamente, dell’architetto Paolo Foietta, Presidente dell’Osservatorio tecnico Torino-Lione, e dell’architetto Mario Virano Direttore generale dell’impresa TELT, titolare delle esecutività del progetto TAV. In entrambi i casi, si declinava l’invito dichiarando che le loro posizioni erano perfettamente e completamente disponibili in documenti largamente accessibili, che si sostiene dimostrino l’assoluta correttezza dei comportamenti assunti dall’Osservatorio e da TELT, in coerenza con i mandati ricevuti.

Secondo quanto documentato nel programma dettagliato disponibile nell’Allegato 1, la Sessione pubblica del TPP si è svolta articolandosi:

§ in una prima giornata dedicata completamente ai rapporti ed alle testimonianze riguardanti il caso della Val Susa;

§ in una seconda giornata focalizzata sulle grandi opere italiane (Mose di Venezia, TAV di Firenze, Muos di Niscemi, la centrale solare termodinamica in Basilicata, i progetti di trivellazione diffusi nel territorio, il ponte di Messina, l’autostrada Orte-Mestre, il bacino delle Alpi Apuane) ed europee (aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in Francia, il TAV di Francia, Paesi Baschi, Regno Unito e Germania e la miniera di Rosia Montana in Romania), ritenute come rappresentative di situazioni comparabili e/o complementari, per contenuti ed attività di opposizione-resistenza delle comunità interessate, del caso esemplare del TAV Torino-Lione;

§ nella mattinata conclusiva, che ha incluso un rapporto generale sulle strategie delle “grandi opere” a livello globale (con particolare attenzione al Messico e all’America Latina) e le requisitorie finali presentate da Livio Pepino (Allegato 3);

Tutta la documentazione multimediale è stata a disposizione dei membri della giuria, i quali hanno avuto modo di porre domande ai relatori, tra cui esperti tecnici e giuridici, rappresentanti delle amministrazioni locali e cittadini delle comunità interessate.

II. I FATTI E IL CONTESTO

In allegato al ricorso introduttivo, nelle successive memorie, nella seduta del 14 marzo 2015 e nella istruttoria svolta nel corso della presente Sessione i ricorrenti hanno prodotto un’ampia documentazione relativa al progetto della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione, comprensiva, oltre che delle allegazioni difensive, dei principali documenti ufficiali su cui si fonda il progetto e delle motivazioni a sostegno pubblicate sul sito istituzionale del Governo il 9 marzo 2012 (integrate il successivo 21 aprile a seguito delle osservazioni svolte dalla Commissione tecnica della Comunità montana Valle Susa e Val Sangone). Sono stati prodotti altresì diversi filmati relativi ai lavori dell’opera, a manifestazioni del movimento di opposizione e ad azioni di contrasto delle forze dell’ordine (alcuni dei quali, provenienti da autorità di polizia e inseriti in processi penali). Nel corso dell’istruttoria svolta nelle giornate del 5 e 6 novembre, poi, sono state acquisite oltre trenta testimonianze dirette o in video (queste ultime prodotte in forma integrale su Dvd versato agli atti) e il Tribunale ha rivolto domande dirette ad alcuni testi. I rappresentanti di TELT (Tunnel Euralpin Lyon Turin) e dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione, pur non comparsi, con missive del 4 novembre, hanno richiamato la documentazione sull’opera «largamente pubblicizzata in sedi istituzionali e mediatiche» e ciò ha consentito l’inserimento nel materiale conoscitivo, tra l’altro, dei 9 quaderni prodotti dall’Osservatorio tra il 2006 e il 2012 (reperibili sul sito del Governo italiano). Inoltre una delegazione del Tribunale si è recata nella zona ove è in corso lo scavo del tunnel geognostico della Maddalena di Chiomonte prendendo visione del cantiere dall’esterno e dall’alto (non essendo stato autorizzato l’accesso, nella data richiesta, all’interno del medesimo).

Oltre ai materiali sin qui indicati il Tribunale ha acquisito documentazione e informazioni su altre grandi opere italiane ed europee ritenute rappresentative di situazioni comparabili e/o complementari alla Nuova linea ferroviaria Torino-Lione (le dighe del Mose di Venezia, il passante ferroviario del TAV di Firenze, la centrale solare termodinamica in Basilicata, il ponte di Messina, l’autostrada Orte-Mestre, l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in Francia, le nuove linee ferroviarie ad alta velocità nei Paesi Baschi di Spagna e Francia, la linea ferroviaria HS2 Londra-Birmingham e la stazione di Stoccarda) nonché su altri interventi ad essa assimilabili per l’impatto ambientale (l’installazione del Muos a Niscemi, i progetti di trivellazione diffusi nel territorio, lo sfruttamento intensivo delle cave di marmo delle Alpi Apuane, l’apertura della miniera d’oro a cielo aperto di Rosia Montana in Romania). A tal fine la segreteria del Tribunale ha anche effettuato accessi diretti a Notre-Dame-des-Landes e a Venezia. Rapporti e testimonianze dirette sono poi intervenuti nel corso della Sessione, nella giornata del 6 novembre.

Da tale ingente materiale probatorio si evince, con riferimento ai profili che qui interessano, quanto segue.

2.1. L’idea di una nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione risale al settembre 1989 quando, su impulso della Fondazione Agnelli, venne presentato a Torino un progetto consistente nella estensione in Italia della rete TGV francese con previsione di un tunnel di 50 chilometri sotto il Moncenisio. Alla presentazione fece seguito, nel febbraio 1990, la costituzione di un Comitato promotore per l’alta velocità Torino-Lione con presidenza congiunta di Umberto Agnelli (espressione di Fiat spa, in allora il più grande gruppo economico privato italiano, con partecipazioni significative anche nelle proprietà di alcuni grandi quotidiani poi distintisi come sostenitori dell’opera) e del Presidente della Regione Piemonte. Nel tempo il progetto ha subito diverse modifiche sia di tracciato che di destinazione, diventando quello di una linea mista per passeggeri e merci e poi, prevalentemente, per merci stante la progressiva riduzione della domanda di trasporto di persone. L’attuale progetto – che ha come fondamento normativo l’articolo 1 dell’Accordo Italia-Francia del 29 gennaio 2001 (ratificato in Italia con legge 27 settembre 2002, n. 228) – prevede una linea di 270 km di cui 144 km di competenza francese, 58 km di competenza mista tra Saint-Jean-de-Maurienne e Susa/Bussoleno e 68 km di competenza italiana (RFI) da Susa/Bussoleno a Orbassano e Settimo, dove dovrebbe collegarsi alla linea Torino-Milano. A tutt’oggi non sono iniziati i lavori per nessuna delle tre tratte, che si trovano in diversi stadi dei loro iter procedurali e autorizzativi, mentre è in corso lo scavo di tunnel geognostici sia in Francia che in Italia e l’indicazione dei governi è quella di procedere, data la mancanza di risorse finanziarie, al solo traforo della galleria di 57 km che dovrebbe attraversare le Alpi alla quota di circa 600 metri, rinviando a un’epoca successiva la decisione sulle altre tratte.

2.2. Sul versante italiano, il tracciato, il previsto imbocco della galleria della tratta internazionale e i lavori in corso per il tunnel geognostico insistono tutti sulla Valle di Susa, una valle con poco meno di 40 comuni e una popolazione di 120.000 abitanti (compresa la parte alta non toccata dall’opera), già percorsa dalla linea ferroviaria storica, dalla autostrada A32 e da due strade nazionali. A seguito del progetto dell’opera e dell’inizio dei lavori preparatori nella Valle si è manifestato ed è in corso un esteso movimento di opposizione all’opera noto come “Movimento No TAV”. Il movimento inizia fin dal 1989 e coinvolge cittadini, amministratori locali, docenti universitari, esperti di varie discipline. La prima ragione di opposizione sta, dichiaratamente, nei temuti rischi per l’ambiente e la salute della popolazione, in considerazione, da un lato, del carattere ciclopico dell’opera e, dall’altro, della presenza, nelle montagne da scavare, di uranio e di amianto. Gli incontri di tecnici e cittadini nella Valle diventano regolari e portano a una diffusa crescita di consapevolezza, conoscenze e partecipazione. Gradualmente, con l’avanzare dei progetti e, poi, dei lavori, l’opposizione si appunta anche su altri profili: la ritenuta inutilità della nuova linea, lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica (stante la previsione di spesa complessiva quantificata da ultimo dalla Corte dei conti francese in 26 miliardi di euro), l’avvenuta esclusione della comunità locale da ogni confronto sulla effettiva utilità dell’opera. Negli anni (e poi nei decenni) il movimento di opposizione, ideologicamente e politicamente eterogeneo, si radica profondamente nel territorio, attrae consensi a livello nazionale e organizza manifestazioni con partecipazioni elevatissime sino a punte valutate di 7080.000 persone secondo le stime del movimento. Fino al 2005 il conflitto del movimento con le istituzioni di governo, seppur aspro, non dà luogo a scontri, che cominciano invece in quell’anno in occasione dei primi espropri e progetti di apertura di cantieri. I momenti di più aspra tensione si verificano a Venaus, la notte del 6 dicembre 2005, con lo sgombero da parte della forza pubblica di un presidio costituito per impedire sondaggi e lavori e, poi, sei anni dopo, il 27 giugno 2011, con l’analogo violento sgombero del presidio della Maddalena costituito per impedire l’apertura del cantiere per lo scavo di un tunnel geognostico. Da allora, al confronto di merito, si accompagnano più o meno frequenti “attacchi” alle reti del cantiere, talora a carattere puramente dimostrativo, altre volte accompagnati da lanci verso il cantiere di pietre e bombe carta o fuochi di artificio a cui le forze dell’ordine rispondono anche con uso di gas lacrimogeni. Si arriva così a una accentuata militarizzazione del territorio (come si dirà più avanti) e a una radicalizzazione del conflitto, mentre si susseguono – inascoltati – gli appelli al Governo di intellettuali, tecnici, economisti, sindacalisti, giuristi, uomini di chiesa, artisti e anche di politici di rilievo nazionale con richiesta di sospendere i lavori e di aprire un confronto reale sulla effettiva necessità/utilità dell’opera.

2.3. Dall’istruttoria svolta è emerso in modo univoco che nessuna puntuale e adeguata informazione circa le caratteristiche e gli effetti dell’opera è stata fornita alle popolazioni e alle amministrazioni locali nella fase antecedente l’accordo Italia-Francia del 2001 (costituente tuttora la base normativa per la nuova linea). I testimoni intesi sul punto hanno concordemente riferito che l’“informazione” istituzionale si è limitata a (scarse) comunicazioni propagandistiche contenenti slogan e previsioni mirabolanti (come il filmato inviato dal Comitato Traspadana ai consiglieri dei Comuni della Valle di Susa e della Val Sangone a fine anni Novanta proiettato nel corso della Sessione) e a incontri di facciata organizzati dai promotori nella sede della Regione a Torino esclusivamente con esponenti del neonato movimento No TAV. La circostanza è, del resto, incontestata e indirettamente confermata dallo stesso Governo italiano che, nella risposta alla domanda n. 5 del documento pubblicato sul proprio sito il 9 marzo 2012 («L’opera è stata concertata con il territorio?») cita esclusivamente fatti, su cui si tornerà più avanti, del 2007.

2.4. È inoltre risultato che, dopo l’accordo italo-francese del 2001, la nuova linea ferroviaria è stata inserita dal Governo italiano, ai sensi dell’art. 1 della legge 21 dicembre n. 443 del 2001 (cosiddetta “legge obiettivo”), tra le «infrastrutture di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese» con trasferimento di ogni decisione in tema di compatibilità ambientale al Presidente del Consiglio (previa deliberazione del CIPE) e conseguente estromissione dal relativo iter decisionale delle amministrazioni locali (private dei poteri di competenza in punto permessi, autorizzazioni o approvazioni). Ciò ha ulteriormente escluso la comunità locale dalla possibilità di interloquire sull’opera. Non solo, ma anche quando, nel giugno 2006, a seguito di specifica decisione del Presidente del Consiglio, la linea TorinoLione è stata esclusa dalla disciplina della legge obiettivo, l’iter dell’opera è proseguito come se ciò non fosse avvenuto (così consentendo, tra l’altro, l’approvazione del progetto del cunicolo esplorativo di Chiomonte utilizzando le procedure attivate per un precedente progetto ubicato altrove e senza nuove gare di appalto). Ciò anche grazie a specifiche dichiarazioni (rivelatesi non veritiere) di istituzioni pubbliche, come la Struttura tecnica di missione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti che, con nota dell’8 settembre 2009, rispondendo a specifico quesito di LTF, attestava che «il collegamento ferroviario TorinoLione è stato inserito nel primo programma di opere strategiche, approvato, ai sensi della legge n. 44372001, con delibera CIPE 21 dicembre 2001 n. 121, cui, peraltro, non ha fatto seguito una successiva delibera del medesimo Comitato interministeriale di formale revoca dell’inserimento dell’opera nel programma delle infrastrutture strategiche» (così, tra l’altro, inducendo in errore il Tar Lazio che, con sentenza 4 dicembre 201327 febbraio 2014, rigettava il ricorso proposto dalla Comunità montana contro la delibera del CIPE 18 novembre 2010).

2.5. Sempre in punto coinvolgimento della comunità locale, illuminante è risultata la vicenda dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione, istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1 marzo 2006, per realizzare un confronto tra le varie componenti territoriali e individuare le soluzioni da sottoporre ai decisori politici (componendo così la conflittualità emersa nei mesi precedenti). L’Osservatorio e i suoi lavori vengono tuttora citati dai promotori dell’opera, dal Governo, dalla Regione Piemonte, dalla maggioranza politica, dalla Commissione europea e dai media indipendenti, in Italia e in Europa, come esempio di corretto rapporto tra istituzioni e cittadini e come dimostrazione della avvenuta partecipazione delle amministrazioni locali e dei cittadini alle decisioni concernenti l’opera (si veda per tutti la già citata “risposta” n. 5 del Governo Monti del 9 marzo 2012 in cui si legge: «L’Osservatorio ha compiuto un lungo percorso, faticoso e complesso, alla ricerca di una soluzione concordata e condivisa, affrontando prioritariamente il tema dell’opportunità e delle modalità di realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione e raggiungendo un accordo tra i diversi rappresentanti. Il 28 giugno 2008 è stato sottoscritto l’Accordo di Prà Catinat, nel quale sono esplicitati gli impegni presi dai diversi attori del progetto, in corrispondenza dei quali si è deciso di avviare la progettazione preliminare dell’intera tratta in territorio italiano dell’opera. Il risultato è un progetto preliminare che rappresenta il primo esempio nella storia italiana di progettazione partecipata e discussa di una grande infrastruttura»). L’istruttoria svolta ha dimostrato la totale infondatezza di tale affermazione. L’Osservatorio, infatti, ha svolto un intenso lavoro di raccolta dati e documentazione, attestato dai quaderni pubblicati (in particolare i primi), ma ha eluso il confronto sul punto centrale – decisivo ai fini di un reale coinvolgimento della comunità locale – della necessità di una nuova linea ovvero della opportunità di ammodernare e utilizzare quella storica. Non risulta, infatti, che vi sia stata alcuna deliberazione formale sul punto; il presidente dell’Osservatorio (a dimostrazione di un ruolo attivo nella realizzazione della nuova linea) ha assunto, contestualmente, l’incarico di capo della delegazione italiana della Conferenza intergovernativa Italia-Francia per la realizzazione dell’opera; addirittura, nel gennaio 2010, il Governo ha deciso di «ridefinire le rappresentanze locali in seno all’Osservatorio», ammettendovi «i soli Comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera». Particolarmente indicativa al riguardo è, poi, la vicenda del cosiddetto accordo di Prà Catinat in precedenza citato (indicato come esempio storico di partecipazione non solo nel documento governativo 9 marzo 2012 ma anche nel quaderno n. 7 dell’Osservatorio, ad esso interamente dedicato, in cui si legge: «Il testo dell’intesa, denominata “Punti di accordo per la progettazione della nuova linea e per le nuove politiche di trasporto per il territorio” è il frutto di un ininterrotto “seminario” di circa 50 ore che ha consentito ai membri dell’Osservatorio, nelle condizioni propizie createsi nell’eremo montano di Prà Catinat (a 1.760 metri di quota) di tirare le fila del lungo lavoro iniziato il 12 dicembre 2006. Alle spalle di questo lavoro e nel vivo di un rapporto continuo dei tecnici con i sindaci e con i molteplici referenti istituzionali, c’è un ricco, ininterrotto, serrato confronto democratico che ha calato nella realtà dei territori e delle comunità locali gli sviluppi e gli esiti di una discussione tecnica su temi sensibili, che è uscita dall’ambito ristretto di una Commissione di lavoro, per farsi confronto politico-sociale aperto, sovente anche duro, ma ormai incardinato, grazie ai Sindaci, in un saldo alveo istituzionale». Secondo quanto emerso nella compiuta istruttoria tale ricostruzione non corrisponde in alcun modo alla realtà: il documento definito “accordo” non venne sottoscritto da alcun sindaco ma solo dal presidente dell’Osservatorio, i sindaci intesi dal Tribunale hanno riferito di non avere mai sottoscritto un documento siffatto (e in molti casi di non avere neppure partecipato al seminario), non risulta esserci stata alcuna deliberazione di consigli comunali di ratifica di tale “accordo”. Nessuna forma di partecipazione, dunque, ma addirittura una presentazione non veritiera e di pura propaganda della realtà. La vicenda è particolarmente grave e assurge a simbolo dell’intento di escludere ogni forma di partecipazione facendo, contestualmente, apparire il contrario.

2.6. Una parte rilevante della Sessione è stata dedicata all’analisi dei dati e delle previsioni richiamati dai proponenti e dalle istituzioni governative italiane ed europee a sostegno della necessità dell’opera. Il dato è rilevante, ai fini del presente giudizio perché il già citato accordo italo-francese del 29 gennaio 2001, «prendendo atto delle raccomandazioni presentate dalla Commissione intergovernativa nel rapporto del 15 gennaio 2001», prevede, nell’articolo 1, che «I Governi italiano e francese si impegnano, in applicazione del presente Accordo, a costruire o a far costruire le opere della parte comune italo-francese necessarie alla realizzazione di un nuovo collegamento ferroviario misto merci-viaggiatori tra Torino e Lione la cui entrata in servizio dovrebbe avere luogo alla data di saturazione delle opere esistenti». Ciò sta a significare, al di là della prudenza terminologica degli accordi internazionali, che il presupposto per la costruzione della linea, pur voluta dai Governi firmatari, era – all’atto della sottoscrizione dell’accordo – la intervenuta o prossima saturazione della linea storica (come risulta del resto, oltre dal comune buon senso, dal dibattito parlamentare di ratifica dell’accordo, in particolare da parte francese). Orbene, da tutta la documentazione acquisita, anche di fonte governativa e a cominciare da quella riportata nei quaderni dell’Osservatorio sopra richiamati, risulta che tale condizione è ben lungi dal realizzarsi ed è anzi destinata a non realizzarsi affatto, essendo la linea storica utilizzata al 2030 per cento delle proprie potenzialità e per di più in presenza di una riduzione consistente del traffico sia su rotaia che su gomma sulla direttrice Est-Ovest (che ha tra l’altro smentito tutte le previsioni dei sostenitori dell’opera fatte all’inizio degli anni Novanta). Ciò è ammesso anche dal Governo italiano che, nel più volte citato documento 9 marzo 2012, pur restando invariato il testo dell’accordo italofrancese, adduce a sostegno della necessità della nuova linea non più la saturazione della vecchia ma la sua “inidoneità”. Si legge, infatti, nella risposta n. 8 del documento citato che: « La linea storica del Frejus è come una macchina da scrivere nell’era del computer: un servizio che nessuno richiede più. Bisogna dunque creare una nuova infrastruttura che soddisfi la domanda di merci e persone. Le esigenze di un moderno ed efficiente trasporto merci, nel quale la componente privata assume un ruolo sempre crescente, non rendono possibile l’utilizzo della capacità esistente sulla Linea Storica Torino-Modane; dato l’obiettivo di favorire in ogni modo il riequilibrio modale tra gomma e ferro, è necessario realizzare il nuovo valico ferroviario ed il nuovo tratto ferroviario. In estrema sintesi, posto gli obiettivi del riequilibrio modale sull’arco alpino, si rende necessario favorire l’utilizzo della ferrovia ad una velocità e ad un costo che il mercato possa ritenere soddisfacente, condizioni queste che l’attuale ferrovia tra Torino e Modane non è in grado di assicurare». Tale affermazione, di evidente carattere evocativo e propagandistico, non è, peraltro, sostenuta da previsioni e dati attendibili e controllabili sui diversi piani coinvolti: l’andamento dei traffici nella direttrice indicata e le previsioni per il futuro, il rapporto costibenefici, le modalità di trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia (nel momento in cui, tra l’altro, si sta realizzando il raddoppio del traforo autostradale del Frejus), l’impatto ambientale conseguente alla realizzazione dell’opera e l’inquinamento prodotto da treni viaggianti alle velocità ipotizzate, le connessioni tra la nuova linea e le tratte esistenti eccetera. La mancanza, l’insufficienza e l’infondatezza dei (pochi) elementi prodotti al riguardo dai proponenti e dalle istituzioni interessate sono stati sottolineati da tutti i tecnici (di diverse impostazione teorica) intesi nel corso della sessione e documentati nella ingente documentazione prodotta. Ciò incide, ovviamente, in modo significativo sui processi democratici sia con riferimento alla definizione dell’interesse generale (da perseguire anche contro interessi particolaristici) sia con riferimento ai processi decisionali e alla partecipazione agli stessi (che deve fondarsi su informazioni attendibili).

2.7. È stata documentata, nel corso della Sessione, la presentazione, a partire dal 2003 e fino ad oggi, di un numero straordinario di richieste, sollecitazioni, appelli, documenti (alcuni dei quali allegati agli atti) rivolti al Governo, al Capo dello Stato, alle istituzioni europee da comuni, associazioni ambientaliste, medici, professori universitari, scienziati, cittadini, intellettuali, esponenti delle chiese e del mondo del lavoro diretti ad ottenere un confronto reale, con sospensione delle attività preparatorie e coinvolgimento di esperti internazionali indipendenti per verificare l’effettiva utilità e sicurezza ambientale dell’opera. Tali sollecitazioni non hanno avuto, per lo più, riscontri di sorta e anche nei (rari) casi in cui gli esponenti sono stati ricevuti dalle autorità adite non risulta che agli incontri abbiano fatto seguito confronti nel merito.

2.8. Analoga mancanza di risposte è risultata con riferimento a numerosi ricorsi presentati da esponenti del movimento di opposizione al TAV in sede giudiziaria, sia davanti alla giustizia amministrativa che a quella ordinaria. Quanto alla giustizia amministrativa vanno segnalati, inoltre, i limiti del sistema normativo italiano che, non prevedendo una specifica tutela degli interessi diffusi (ma solo dell’interesse legittimo facente capo a singoli o a un gruppo di soggetti), impedisce di fatto azioni giudiziarie collettive a tutela dei beni comuni, come quelli implicati nella vicenda della Valle di Susa. Quanto alla giustizia ordinaria, poi, è risultato che diversi esposti su profili generali o particolari, indirizzati alla Procura della Repubblica di Torino e a quella di Roma sono stati archiviati de plano senza uno specifico esame del merito (come l’esposto-denuncia 31 marzo 2014 presentato alla Procura di Roma da Cancelli più 3 aventi ad oggetto «forzature, irregolarità e false attestazioni» di potenziale rilevanza penale intervenute nell’iter dell’opera) o addirittura hanno prodotto effetti boomerang (come l’esposto presentato il 22 maggio 2013 alla Procura della Repubblica di Torino dal presidente di Pro Natura Piemonte e dai responsabili di altre associazioni ambientaliste sul pericolo cagionato da una frana attiva incombente sull’area del cantiere del tunnel geognostico della Maddalena, a cui ha fatto seguito l’inizio di procedimento penale nei confronti dei ricorrenti per “procurato allarme”).

2.9. Un altro punto di particolare rilievo approfondito nella Sessione e in relazione al quale è stata prodotta un’ampia mole di documenti (provenienti anche da enti di rilevanza nazionale come l’Associazione italiana Giuristi democratici) riguarda il restringimento, in Valle di Susa, dell’area di alcuni diritti fondamentali. La mancanza di dialogo e di confronto delle istituzioni nazionali con la popolazione locale ha infatti determinato – come si è detto in precedenza – una elevata e talora aspra conflittualità. Ad essa hanno fatto seguito risposte istituzionali che spesso hanno superato la soglia fisiologica del mantenimento dell’ordine democratico e dell’equilibrato perseguimento dei reati, inducendo – per le loro modalità, distorsioni o eccessi – significative violazioni di diritti costituzionalmente garantiti (in particolare in punto libertà di circolazione, di manifestazione, di espressione del pensiero e di libertà tout court). Risulta, infatti, dalle testimonianze e dalla documentazione acquisita che:

a) è stata emanata una normativa ad hoc con la introduzione di una sorta di diritto penale “speciale” per l’area circostante il cantiere della Maddalena di Chiomonte. L’articolo 19 della legge 12 novembre 2011, n. 183, infatti, con una previsione che ha un precedente solo nel decreto legge 23 maggio 2008, n. 90 relativo agli impianti per lo smaltimento dei rifiuti in Campania, dispone: «Per assicurare la realizzazione della linea ferroviaria TorinoLione e garantire, a tal fine, il regolare svolgimento dei lavori del cunicolo esplorativo de La Maddalena, le aree ed i siti del Comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di interesse strategico nazionale. Fatta salva l’ipotesi di più grave reato, chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale di cui al comma 1 ovvero impedisce o ostacola l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale». Va ricordato che il richiamato articolo 682 del codice penale («Ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato») prevede che «chiunque si introduce in luoghi, nei quali l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto da tre mesi a un anno ovvero con l’ammenda da 51 a 309 euro». In tal modo l’area circostante il cantiere in questione è stata trasformata a tutti gli effetti in zona militare (con conseguente applicazione di una disciplina prossima a quella prevista per i conflitti militari);

b) è stata istituita, nelle immediate adiacenza del cantiere anzidetto una “zona rossa”, interdetta ai cittadini, salvo comprovate esigenze di lavoro. Ciò è stato realizzato attraverso la reiterazione da parte del Prefetto di Torino, senza soluzione di continuità, di ordinanze sostanzialmente identiche con cui l’area adiacente al cantiere della Maddalena di Chiomonte è stata affidata alle forze di polizia vietando «a chiunque» «l’accesso e lo stazionamento» nell’area e la circolazione nelle zone limitrofe. Ad essere discutibile, oltre al fatto in sé, è la circostanza che le ordinanze prefettizie siano state emesse, per la durata ininterrotta di oltre quattro anni (dal 22 giugno 2011 al 30 settembre 2015, con validità, allo stato, sino al 30 gennaio 2016), sulla base dell’articolo 2 del Testo unico di pubblica sicurezza (Regio decreto 18 giugno 19231, n. 773), che prevede un potere esercitabile in condizioni di necessità ed urgenza («Il prefetto nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica»);

c) nell’area descritta e, più in generale, in vaste zone della Valle di Susa è stata operata una vera e propria militarizzazione del territorio, con l’impiego, anomalo in tempo di pace, di corpi dell’esercito in funzione di controllo del territorio, a supporto delle diverse forze di polizia. Ciò ha determinato limitazioni al diritto di circolazione, controlli invasivi sulle persone e disagi gravi nella vita quotidiana di dette zone, anche per quanto riguarda le attività lavorative e i rapporti personali. La circostanza è stata constata direttamente dalla delegazione del Tribunale recatasi in visita alla zona che, per accedere in un’area non sottoposta a limiti di circolazione, ha dovuto sottoporsi ad una lunga attesa e al controllo e alla registrazione dei documenti e che è stata poi seguita, fotografata e filmata per l’intera durata della visita da personale delle forze dell’ordine;

d) è stato posto in essere, per controllare il territorio e vincere resistenze o opposizione, un impiego quantomeno sproporzionato dei poteri legittimi e della forza: con richieste continue di documenti a fini di identificazione, riprese fotografiche e filmate di cittadini pacifici, interventi di particolare violenza per effettuare lo sgombero del presidio di Venaus il 6 dicembre 2005 e della Maddalena il 27 giugno 2011 (con grave danneggiamento della necropoli del 4000 avanti Cristo ivi esistente), impiego massiccio di gas lacrimogeni nelle operazioni di controllo di manifestazioni nei pressi del cantiere etc.

2.10. Le acquisizioni istruttorie evidenziano anche il concorso nelle violazioni sopra descritte di alcune istituzioni europee: in particolare il Commissario designato a Coordinatore del progetto prioritario TENT n. 6, Laurens Jan Brinkhorst, e la Commissione petizioni del Parlamento europeo. Quanto al primo, ciò risulta in atti da diverse dichiarazioni, rese in via autonoma o nelle relazioni annuali di competenza, che riproducono le allegazioni del Governo italiano e del presidente dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione senza tenere in alcun conto (neppure per confutarle) le osservazioni delle istituzioni territoriali e dei loro tecnici, minimizzano i potenziali danni ambientali e alle falde acquifere conseguenti all’opera, danno atto (in modo non corrispondente al vero) della esistenza, in Valle di Susa, di un ampio consenso sulla nuova linea ferroviaria. Quanto alla Commissione petizioni del Parlamento europeo è emerso, anche in base a testimonianze provenienti dallo stesso Parlamento, il perdurante atteggiamento omissivo in punto controlli in loco sulle doglianze avanzate da istituzioni territoriali e cittadini (effettuati in un’unica occasione e senza poi dar seguito alle segnalazioni della delegazione inviata) e il mancato esame in contraddittorio degli esposti ad essa pervenuti, tutti archiviati senza scendere nel merito.

2.11. Come si è detto il Tribunale ha svolto un’indagine conoscitiva anche con riferimento a numerose altre opere italiane ed europee. Particolarmente approfondito, e comprensivo di un accesso in loco in preparazione della presente sessione, è stato l’esame del progetto dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes e del relativo movimento di opposizione. Il progetto di affiancare a quello esistente un nuovo aeroporto nei pressi della città Nantes, risalente alla fine degli anni Sessanta, ha riacquistato attualità nel 2000 con la previsione di ultimarne la costruzione nel 2017. Sin dagli anni Settanta si è, peraltro, manifestata una forte opposizione, cresciuta negli anni, determinata dalla ritenuta inutilità dell’opera (data la possibilità di ingrandire e razionalizzare l’aeroporto internazionale già esistente), dai costi insostenibili e dai danni ambientali che ne deriverebbero (con perdita irreversibile di terreni agricoli e di zone umide particolarmente pregiate). Il movimento di opposizione aggrega oggi oltre 50 comitati, associazioni, movimenti politici, sindacati e svolge un’attività intensa e continuativa su alcuni piani fondamentali: la resistenza sul territorio (con occupazione di un’area denominata Zad o Zona da difendere, con aumento delle coltivazioni e con ripetute manifestazioni), la documentazione e la denuncia dell’inutilità dell’opera e delle irregolarità che la caratterizzano (che ha avuto l’effetto di coinvolgere nell’opposizione settori significativi di amministratori locali) e l’azione giuridica (con la presentazione di ricorsi in sede giudiziaria a tutti i livelli, sia contro le espropriazioni dei terreni sia contro specifici profili progettuali dell’opera). A seguito di tale intensa e continuativa opposizione, i lavori di costruzione dell’aeroporto, nonostante l’avanzamento dell’iter amministrativo, non sono ancora iniziati. Le forze politiche di governo continuano, peraltro, a sostenere che l’opera è necessaria e che, in ogni caso, si farà e il conflitto con gli oppositori si fa sempre più aspro. L’istruttoria svolta ha evidenziato molti caratteri comuni, oltre a quelli già esposti, tra il caso di Notre-Dame-des-Landes e quello del TAV in Valle di Susa. Tra questi si segnalano: l’ampiezza ed eterogeneità del movimento di opposizione esteso anche oltre l’area territoriale interessata e comprendente le categorie sociali più diverse; la mancanza di un effettivo coinvolgimento e di una reale consultazione nelle decisioni sull’opera delle comunità interessate e delle relative istituzioni o il carattere puramente apparente di tale consultazione (come avvenuto nella concreta gestione della procedura del Dèbat public); la costituzione, dopo alcuni violenti scontri avvenuti nel 2012, di una “Commissione di dialogo” che ha, peraltro, escluso dal confronto ogni discussioni sulla opzione “Zero” (cioè sulla scelta di ingrandimento dell’aeroporto esistente con rinuncia alla costruzione di nuove strutture); la mancata risposta ad appelli, richieste, denunce e l’omesso inoltro alle istituzioni europee della documentazione fornita dagli oppositori; la ripetuta manipolazione di dati e una informazione del tutto squilibrata a favore dell’opera da parte delle istituzioni; l’adozione di interventi di polizia con uso sproporzionato della forza al fine di contrastare le manifestazioni di protesta e una repressione giudiziaria particolarmente dura dei reati commessi dai manifestanti; l’uso a livello politico e giornalistico di termini e linguaggi tesi a criminalizzare il movimento di opposizione (sino alla evocazione di categorie come il “terrorismo”).

2.12. Come già indicato nel precedente punto 1.2, le altre grandi opere ammesse all’esame del TPP, hanno incluso le dighe del Mose di, il passante ferroviario del TAV di Firenze, la centrale solare termodinamica in Basilicata, il ponte di Messina, l’autostrada Orte-Mestre, le nuove linee ferroviarie ad alta velocità nei Paesi Baschi di Spagna e Francia, la linea ferroviaria HS2 Londra-Birmingham, la stazione di Stoccarda, l’installazione del Muos a Niscemi, i progetti di trivellazione diffusi nel territorio, lo sfruttamento intensivo delle cave di marmo delle Alpi Apuane, l’apertura della miniera d’oro a cielo aperto di Rosia Montana in Romania. Da notare in particolare i rapporti relativi al Mose erano già il risultato di una intera ed intensissima giornata di pubblica audizione, a Venezia, alla presenza della Segreteria generale del TPP, il giorno 10 ottobre 2015. Nel caso del sottoattraversamento di Firenze, secondo il parere di esperti sentiti dai comitati popolari, è del tutto manchevole la valutazione dei seguenti rischi: inquinamento e deviazione delle falde con effetti di danno agli edifici, riduzione della resistenza dei terreni, ipoteca perenne sul sottosuolo di una città estremamente delicata e bisognosa di interventi sul traffico cittadino anche mediante l’adozione di usi del sottosuolo che verrebbero impediti dalla “barriera” esercitata dall’opera, allungamento dei tempi di collegamento fra i treni veloci e la rete regionale, non conformità alle norme sismiche, dati progettuali e prove invecchiati e non affidabili, uso improprio del metodo “osservazionale”.

Senza scendere qui nei dettagli, sono emerse impressionanti somiglianze (talora addirittura sovrapposizioni) nei metodi seguiti con riferimento a tali opere in punto carattere autoritario e centralizzato delle decisioni ad esse relative, esclusione delle popolazioni e delle amministrazioni locali da dette decisioni (o coinvolgimento puramente apparente), insufficienza e (talora) evidente incongruità dei dati forniti a sostegno, trasformazione delle questioni politiche inerenti le opere in problemi di ordine pubblico demandati a polizia e magistratura (anche a mezzo di appositi provvedimenti legislativi o amministrativi di carattere generale), interventi di polizia e giudiziari assai pesanti da molti interpretati come metodi diretti a disincentivare e/o bloccare sul nascere opposizione e protesta.

La gestione della vicenda del TAV in Valle di Susa si è così delineata non già come episodio isolato e a sé stante ma come metodo diffuso di intervento rispetto alle grandi questioni di modifiche territoriali e dell’ambiente in atto.

III. QUALIFICAZIONE DEI FATTI E QUADRO DI RIFERIMENTO DEL DISPOSITIVO

Una valutazione complessiva dei ruoli e delle responsabilità dei diversi soggetti, pubblici e privati, indicati come promotori ed attori protagonisti dello sviluppo e della gestione delle grandi opere, così come risultano dalla articolata e dettagliatissima documentazione sottoposta all’attenzione del TPP (riassunta nei suoi elementi essenziali nella sezione precedente) può essere ricondotta a tre ordini di considerazioni.

3.1 La democrazia come quadro di riferimento fondamentale

I processi di costruzione dei sistemi democratici sono il prodotto di un lungo cammino di conquiste democratiche dei popoli che hanno permesso di costituire un ordine di diritti umani, sociali, politici, culturali che costituiscono la base e la garanzia della democrazia e della legittimità dei poteri e delle istituzioni dello Stato.

Il sistema internazionale ha prodotto la Carta fondamentale dei diritti umani che è la base di tutte le costituzioni nazionali, rafforzate successivamente con altri strumenti internazionali. Più recentemente si è assistito all’inclusione esplicita di gruppi sociali e minoranze etniche come il risultato della loro domanda di riconoscimento e autodeterminazione che trova una sua più generale formulazione nell’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli proclamata ad Algeri nel 1976, considerata come quadro di riferimento specifico (sia a livello dottrinale che operativo) per le attività e i criteri di funzionamento e di giudizio del TPP: “ogni popolo ha diritto alla conservazione, protezione, miglioramento del suo ambiente di vita”.

L’universalizzazione di questi diritti come principi fondamentali della convivenza e della governabilità democratica e come tali inclusi anche a livello costituzionale rappresenta la trama costitutiva della nozione di interesse pubblico. Il crescere di situazioni critiche ambientali e territoriali, la comunità internazionale e i singoli paesi hanno prodotto altri quadri di riferimento che consolidano doveri e diritti specifici dei popoli e degli Stati per la gestione sostenibile dei beni comuni, delle risorse naturali e dei territori. Da sottolineare in modo particolare le convenzioni ambientali multilaterali e alcuni documenti più specifici come la Convenzione di Aarhus che prevedono procedure obbligatorie per la partecipazione delle comunità locali in tutti i processi decisionali che riguardano la gestione dell’ambiente e dei territori. Da sottolineare soprattutto la protezione dei diritti all’accesso a una informazione tempestiva e adeguata sui progetti che ci si propone di sviluppare nei territori; la partecipazione nelle decisioni sulle attività che in questi devono svilupparsi e l’accesso alla giustizia attraverso meccanismi giuridici amministrativi mirati a risolvere disaccordi o differenze riguardanti quei processi. Il rispetto sostanziale del diritto alla partecipazione coincide in questo senso con lo strumento principale di garanzia e di legittimazione nei processi decisionali riguardanti persone e comunità locali per progetti che interessano i rispettivi diritti e territori, così come per esaminare le necessità dei progetti stessi, formulando eventualmente alternative ad una esplicita opposizione.

Qualsiasi limitazione grave dell’esercizio del diritto alla partecipazione ostacola anche la garanzia di altri diritti, e si traduce in una violazione della governabilità democratica.

È chiaro in questo scenario l’impatto devastante delle recenti evoluzioni del sistema economico e finanziario internazionale con la sua progressiva istituzionalizzazione, e la creazione di un sistema di regole parallele che pretendano di essere indipendenti e gerarchicamente superiori, in nome di vantaggi da attribuire alla crescita economica come condizione prioritaria di benessere e sviluppo, al sistema di diritto e garanzie democratiche.

3.2 Interesse locale e interesse generale

L’insieme delle testimonianze ha permesso al TPP di riflettere, da un lato, sui limiti, almeno nei casi presentati in questi giorni, dell’affermazione secondo la quale nessun interesse locale può contrapporsi fino in fondo a quello che viene considerato l’interesse generale. Dall’altro lato, le testimonianze hanno messo in evidenza che il modo in cui si è sviluppato il confronto intorno alle grandi opere pubbliche è emblematico di un deterioramento nei rapporti tra politica, Stato e cittadini.

La considerazione di buon senso secondo cui l’interesse dei più prevale su quello dei meno  che, in linea di principio, è assolutamente condivisibile  può essere ritenuta valida se mette a confronto interessi “qualitativamente” simili. Solo in questi casi, infatti, l’elemento dirimente sarà la “quantità” degli interessi coinvolti. Il problema sta nel fatto che nei casi sottoposti alla nostra attenzione gli interessi in gioco fanno riferimento in primo luogo a collettività, quella locale e quella sulla cui base si definisce l’interesse generale, diverse tra loro, non definite cioè nello stesso modo. Se le collettività locali si identificano con un territorio delimitato, ma specifico, la collettività più ampia rimanda ad una idea di mercato, non solo non altrettanto facilmente identificabile ma anche rappresentativa di valori differenti. I casi presentati nel dibattimento non mettono in contrapposizione quindi l’interesse locale a quello generale, ma fanno riferimento a qualcosa di qualitativamente diverso. Si tratta di un confronto tra valori: da un lato si pongono i valori e le ragioni della società, sia pure in una accezione delimitata geograficamente e, dall’altro, i valori e le ragioni dell’economia. Una questione che si può considerare fisiologica in una economia di mercato, ma alla quale è necessario prestare grandissima attenzione. Non bisogna dimenticare cioè che l’economia di mercato può essere considerata come l’espressione della scommessa secondo cui è possibile far convivere le spinte che derivano dal mercato con il rispetto dei valori intorno ai quali è costruita una democrazia moderna. Che dunque sia sempre possibile trovare un equilibrio tra spinte di natura differente.

Tale equilibrio non può voler dire che le spinte che provengono dal mercato debbano sempre prevalere su quelle provenienti dalla società, e può essere raggiunto solo attraverso un confronto aperto e trasparente che vede coinvolte sia le parti in causa che l’opinione pubblica.

È proprio questo confronto che, nei casi sottoposti ad esame, è venuto a mancare in maniera evidente. Da un lato per ragioni istituzionali: il fatto che le decisioni siano state prese, nel caso delle grandi opere, da istituzioni tecniche internazionali, ritenute più coerenti sul piano territoriale con le dimensioni del mercato, ha reso questo confronto pressoché impossibile già nella prima fase del processo decisionale; per di più questo confronto non equivale di certo al fatto che i governi nazionali abbiano adottato le indicazioni ricevute da tali istituzioni. Dall’altro lato il confronto è venuto a mancare per una scelta da parte delle istituzioni nazionali che non può non apparire come un elemento di rottura rispetto agli equilibri preesistenti. Tale condotta sembra essere espressione, più o meno consapevole, della volontà di voler perseguire un progetto di “società economica” plasmata sulle esigenze di supposte leggi economiche. In questo modo, l’equilibrio tra le ragioni dell’economia e quelle della società viene sacrificato a favore delle prime, per cui l’unico obiettivo proposto come plausibile è la crescita del reddito. Una crescita per la quale possono essere sacrificati altri valori di più lungo periodo.

Una società quindi diversa da quella disegnata dalle costituzioni europee e che, facendo propria l’idea di un interesse generale coincidente con quello del mercato, espone la politica al rischio di schiacciarsi sugli interessi e sulla cultura dei poteri economicamente forti.

L’assoluta mancanza di trasparenza nel modo in cui sono stati decisi investimenti di così grandi dimensioni e la “debolezza” delle argomentazioni tecniche, entrambe largamente comprovate dalle testimonianze, appaiono dunque al Tribunale come fatti emblematici e non occasionali; come espressione quindi di problemi di natura più generale che hanno a che fare con un cambiamento di atteggiamento da parte della politica sul ruolo da attribuire alla dimensione economica nel suo rapporto con quella non economica; in sintesi, come una rivisitazione del significato stesso che si è dato in passato all’economia di mercato ma anche un cambiamento costoso in termini di funzionamento della democrazia intesa in senso ampio; come rapporto cioè tra Stato, società e politica.

I fatti rappresentati al Tribunale durante il dibattimento, la stessa asprezza che ha assunto il confronto in realtà geografiche anche molto differenti tra loro, possono costituire una testimonianza in questo senso. Una politica che sta plasmando le sue scelte sulle indicazioni provenienti dalle istituzioni internazionali, e che costringe sistematicamente la società ad adattarsi alle leggi dell’economia, non riesce più a tutelare i diritti e allo stesso tempo genera una perdita della “qualità” della democrazia. E ciò, in primo luogo, perché ha bisogno di riformare lo Stato per poter imporre la logica dell’economia su quella del diritto, ma soprattutto perché rompe il suo rapporto di fiducia con cittadini. Una rottura che rende da un lato possibili le aggressioni alla politica da parte di interessi settoriali e, dall’altro, costringe la politica stessa a vivere di narrazioni capaci di creare una fiducia emotiva nel breve periodo ma destinata ad indebolirla ulteriormente nel lungo periodo.

Se dunque si vuol leggere le vicende emerse in termini di contrapposizione tra un interesse generale ed interessi particolari, le testimonianze presentate fanno intravedere più rispetto dell’interesse generale nelle istanze che vengono dalle comunità locali che in quelle che provengono dalla politica e dalle imprese. Istanze queste ultime che appaiono all’evidenza costruite intorno a corposi interessi particolari.

3.3. Le grandi opere. Un antimodello

Dal profilo complessivo delle grandi opere,cosi come emerso dalla documentazione presentata in questa Sessione del TPP, è facile derivare e disegnare, con un passaggio inferenziale molto semplice, un modello, o per meglio dire, un antimodello, se si inseriscono nella riflessione criteri di valore esclusi dal discorso dei promotori delle stesse grandi opere.

Si tratta, di solito, di progetti di dimensioni enormi; che trasformano in maniera rilevante la realtà fisica nella quale si inseriscono; che producono regolarmente effetti devastanti nell’ambiente; che alterano in questo modo, in maniera grave e in generale irreversibile, il contesto di vita delle comunità colpite. Se tali sono gli effetti che le grandi opere provocano su un piano che si direbbe sociostrutturale, non sono meno negative le conseguenze che ricadono sull’ordine istituzionale. Non potrebbe essere altrimenti, dato che la stessa natura di questi progetti impone un modus operandi che si traduce nella messa in atto di veri e propri stati di eccezione come loro atmosfera giuridicopolitica. È così che dovrebbe qualificarsi un piano di opere che —nel caso italiano— ha bisogno di attribuire a centinaia di queste il carattere di “strategiche”, cosa equivalente a una sua militarizzazione, per blindarle dinanzi agli interrogativi e le domande provenienti da una opinione giustamente allarmata.

I governi nati dalle urne sono costituzionalmente abilitati a realizzare opere con un inserimento fisiologico nei programmi elettorali sostenuti dalla cittadinanza attraverso il proprio voto. In tali circostanze, possono legittimamente imporre a queste o ad alcune sue parti l’eventuale carico di sopportare sacrifici proporzionali e sufficientemente giustificati e con procedure legalmente previste. Questo tipo di opzioni, se presidiate da una correlazione mezzi/fini di palese razionalità, appartengono alla normalità della politica in democrazia.

Il problema emerge in assenza di una ratio di questo genere. Tale assenza potrebbe prodursi quando i fini non siano costituzionalmente riconoscibili: o perché, pur essendolo, non risultino anticipati nei mezzi con la coerenza esigibile. Ma anche, ed è l’ipotesi più grave, quando —secondo i dati disponibili— sia i mezzi sia i fini e i modi di procedere sono oggettivamente inaccettabili.

Ebbene, tale è il caso delle grandi opere qui contemplate. Di queste si può sostenere che non rispondono ai fini dell’interesse generale proclamati dai suoi promotori; un dato che per se stesso sarebbe già un poderoso fattore di delegittimazione. Ma, inoltre, accade che, sul piano dei mezzi e delle procedure utilizzate, con la loro attuazione si rompe drasticamente la cornice di riferimento normativa e di regole che deve sostenere qualsiasi esercizio di amministrazione e di potere in una democrazia costituzionale.

Lo stato di eccezione menzionato acquista visibilità, già per cominciare, nell’identità degli autentici attori del processo decisionale, nei veri responsabili delle scelte, radicati nelle opache sedi extraistituzionali, e per tanto, fuori dal raggio d’azione dei dispositivi di controllo che, almeno in principio, vi operano. In secondo luogo, perché, servendosi di operatori istituzionali come longa o brevi manu, si dotano di procedure ad hoc per agire, in nome dell’efficienza (efficienza senza principi), in una atipica formalità/informalità che li rende effettivamente insindacabili.

L’opacità dei fini realmente perseguiti ha bisogno di formule programmaticamente oscure nel presentare le attività intraprese, sostituendo la trasparenza con la segretezza che è per antonomasia brodo di coltura del potere autoritario.

In contesti almeno formalmente democratici, abitati da cittadini non solo titolari di diritti, ma decisi ad esercitarli, è inevitabile che modi di procedere come quelli indicati generino la pretesa, più che giustificata, di conoscenze precise tanto più su temi che li riguardano direttamente e profondamente. Ed è altrettanto chiaro che questa pretesa di sapere, che ha come soggetto protagonista i movimenti che hanno richiesto questa sessione del TPP, è doppiamente legittima. Anzitutto per il fatto che si tratta di un interesse diretto e che riguarda il rischio grave di violazioni di diritti inalienabili. E in secondo luogo, perché si esercita nei confronti di soggetti e forme di esercizio del potere che, attuando al margine delle regole, sono più che altro fattuali, per quanto risiedano o si servano di sedi istituzionali.

È per questo che la legittimità, più che discutibile, e molto giustamente messa in discussione fin dall’inizio, delle opzioni, decisioni, delle procedure e delle pratiche che ne derivano, è in emblematica continuità, nella forma e nella qualità delle intollerabili risposte, alle giuste inquietudini e domande della comunità interessata.

A fronte delle proteste diffuse, si ricorre a strategie di criminalizzazione della protesta. Non solo le decisioni e il dibattito precedenti si erano scontrati con comportamenti gravemente lesivi dei diritti e degli interessi vitali di frazioni importanti della popolazione: questa stessa popolazione è oggetto di una nuova forma di violenza. Violenza che si somma a violenza.

D’altra parte, l’opacità e la scarsa chiarezza che circonda la scelta degli obiettivi, i processi decisionali e lo sviluppo stesso delle grandi opere, diventano tanto più intollerabili quanto più si prolunga la manipolazione operata dai grandi mezzi di comunicazione sui movimenti che si oppongono alle stesse grandi opere. I mezzi di comunicazione si convertono in agenti di disinformazione, e spesso di contaminazione. Agenti “organici”, si potrebbe dire, ai promotori e beneficiari delle grandi opere, data la comune appartenenza dei titolari delle testate allo stesso ambito di interessi.

Sulle popolazioni già colpite dalle grandi opere, si chiude una specie di circolo vizioso antidemocratico e oligarchico, che vede come protagonisti potentissimi interessi di grandi attori economici, che strumentalizzano a proprio ed esclusivo interesse le risorse istituzionali del sistema democratico. Quei mezzi di comunicazione che dovrebbero garantire effettività al diritto fondamentale all’informazione si rivelano complici oggettivi.

Per le ragioni a cui sinteticamente si è fatto riferimento, è bene concludere che la strategia delle grandi opere, di cui il TAV è emblema:

§ con il modo in cui si determinano le scelte, che irrompono nello spazio della politica da centri economici decisionali che questa non controlla;

§ con l’occultamento dei fini realmente perseguiti, di lucro privato e contrario all’interesse comune;

§ con le procedure, che si contraddistinguono per la eccezionalità e la segretezza,  sono tutte una metafora anticipatoria di quello che oggi è divenuta la gestione della crisi su scala globale. Visto che questa si trova ad essere istituzionalmente governata da sedi, diverse da quelle proprie della democrazia rappresentativa dei rispettivi paesi, che impongono a questa i loro interessi, opposti ed estranei a quelli della cittadinanza coinvolta, che viene privata dei suoi diritti; mentre riducono il ruolo delle istituzioni costituzionali degradandolo alla mera prestazione di servizi di polizia e ordine pubblico.

Proprio per questo, mettere in discussione e opporsi, facendo uso della ragione e del diritto, a questa politica e alle pratiche che ne conseguono nella fase di realizzazione, non si configura solo come difesa dei legittimi interessi delle persone direttamente colpite: si traduce di fatto in un preciso contributo per ristabilire l’ordine costituzionale come unica cornice legittima della politica democratica, che non può prescindere da una chiara cultura del sostegno da parte dei cittadini.

DISPOSITIVO

IL TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI

Considerando la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli adottata in Algeri nel 1976 e in particolare gli articoli 7 e 10;

Considerando l’insieme dei trattati internazionali e degli altri strumenti di protezione dei diritti umani, inclusi i diritti economici, sociali, culturali e ambientali, così come i diritti civili e politici;

Considerando, in particolare l’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 di dicembre 1948 e l’art. 25 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, che riconoscono il diritto di tutte le persone alla partecipazione nelle questioni di interesse pubblico;

Considerando la Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, adottata in Aarhus il 25 giugno del 1998, di cui sono membri 47 stati tra cui l’Italia, dal 13 giugno 2001, e la Francia dall’8 luglio 2002, e approvata dall’UE con la decisione 2005/370/CE del Consiglio del 17 febbraio 2005 e la cui applicazione parziale a livello comunitario si è realizzata con la Direttiva 2003/4/CE relativa all’accesso della società civile all’informazione ambientale e la Direttiva 2003/35/CE relativa alla partecipazione del pubblico nelle procedure relative all’ambiente;

Considerando la Direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985 riguardante la valutazione dell’impatto di progetti pubblici e privati sull’ambiente, modificata con la Direttiva 2011/92/UE riguardante la valutazione dell’impatto di progetti pubblici e privati sull’ambiente e la Direttiva 2014/52/UE del 16 aprile 2014;

Considerando l’insieme di prove documentali e le testimonianze che sono state presentate in questa sessione,

RITIENE

che deve essere richiamato con forza l’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, che afferma che “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali per dignità e diritti. E soprattutto che “essi sono dotati di ragione e coscienza, e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità”. Il concetto di fraternità, troppo spesso sostituito con quello di solidarietà, ha un valore costituzionale nel diritto francese (preambolo e art. 2, Costituzione francese 4/10/1958) e rinvia all’idea che proprio sulla fraternità degli umani a livello mondiale e sulla sua dimensione intergenerazionale che si fonda l’imperativo della protezione dell’ambiente. È perciò importante restituire al concetto di fraternità il suo valore giuridico, come principio attivo che ispira, guida e fornisce una quadro di riferimento all’elaborazione della legge. Nella Costituzione italiana, che prevede come obbligatorio e non derogabile il compimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, il principio di fraternità è assente, ma l’esigenza della realizzazione dei doveri sopra ricordati rinvia di fatto alla nozione di fraternità, così come questa viene utilizzata nella Dichiarazione universale dei diritti umani. È questo principio fondamentale di “fraternità” che è nel cuore delle rivendicazioni delle persone che si sono mobilitate contro il TAV, il grande progetto di cui non è stata dimostrata l’effettiva utilità.

IL TRIBUNALE

In adesione alle tendenze culturali e giuridiche che si vanno ormai affermando e che sono garantite dai trattati e dalle altre norme internazionali sopra richiamate, riguardanti i comportamenti in materia di costruzione di grandi opere, intese come le opere che producono importanti effetti territoriali e ambientali, elencate negli allegati alla Convenzione di Aarhus:

RICONOSCE

tra i diritti fondamentali degli individui e dei popoli, quello alla partecipazione ai procedimenti di deliberazione relativi alle stesse opere. Questo diritto, oltre a essere espressione del diritto di partecipazione degli individui e dei popoli al proprio governo – come stabilito nella Dichiarazione universale dei diritti (art. 21) e nel Patto sui diritti civili e politici (art. 25) – è funzionale ai principi della democrazia e della sovranità popolare e alla garanzia dell’effettivo rispetto degli altri diritti umani, incluso il diritto all’ambiente e a condizioni vita conformi alla dignità umana degli individui e delle comunità locali coinvolte dalle opere.

RITIENE

censurabili tutti quei Governi che, in diritto e nella prassi, non aprano a forme efficaci di partecipazione – il cui modello può essere attinto dalla Convenzione di Aarhus – nei procedimenti relativi alle grandi opere.

Pertanto RICHIEDE a tutti gli Stati, in Europa e nel mondo, di dotarsi delle norme e di seguire le prassi a ciò necessarie.

I casi esposti nella sessione del TPP dai rappresentanti delle comunità di Val di Susa, Notre-Dame-des-Landes, di Londra, Birmingham e Manchester, di Rosia Montana, dei Paesi Baschi di Francia e di Spagna, di Stoccarda, di Venezia, di Firenze, della Basilicata e delle regioni d’Italia interessate ai progetti di trivellazione, di Messina e di Niscemi, e di tutti gli altri progetti presi in considerazione, documentano un modello generalizzato di non conformità operativa a questi principi, da parte di un gran numero di governi e di enti pubblici oltre che dei committenti esecutori di grandi opere.

IL TRIBUNALE

GIUDICA ILLEGITTIMA questa condotta procedurale e la denuncia davanti all’opinione pubblica mondiale e

DICHIARA

 che in Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione (conosciuto come TAV), previsto inizialmente nell’Accordo bilaterale tra Francia e Italia del 29 gennaio 2001; di partecipare, direttamente e attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, nei processi decisionali relativi alla convenienza ed eventualmente, al disegno e alla costruzione del TAV; di avere accesso a vie giudiziarie efficaci per esigere i diritti sopra menzionati. Dall’altra parte si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta che saranno dettagliate più avanti.

 che queste violazioni si sono realizzate tanto per commissione che per omissione. Da un lato, la omissione di uno studio serio di impatto ambientale del progetto nel suo complesso, prima della sua autorizzazione; non si è garantita alle comunità coinvolte una informazione completa né veritiera in tempi sufficientemente precoci; si sono esclusi gli individui e le comunità locali da ogni procedura effettiva di partecipazione nella deliberazione e nel controllo della realizzazione delle opere, simulando anzi procedure di partecipazione fittizie e inefficaci; non si è dato corso ai procedimenti attivati nei tribunali per far valere i diritti di accesso alla informazione e alla partecipazione nei processi decisionali. D’altra parte ci sono le violazioni che sono il prodotto di azioni deliberate e pianificate: la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; la simulazione di un processo partecipativo con l’istituzione dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino Lione, che arriva ad escludere i dissidenti (Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 19 gennaio 2010), e ad annunciare un accordo inesistente, il cosiddetto Accordo di Prà Catinat del giugno 2008, utilizzato largamente nei rapporti con l’opinione pubblica e le istituzioni europee; la adozione di misure legislative aventi come obiettivo l’esclusione della partecipazione dei cittadini e delle comunità locali; la strategia di criminalizzazione della protesta con pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia, che includono anche la persecuzione penale sproporzionata e la imposizione di multe eccessive e reiterate, l’uso sproporzionato della forza.

 che, in particolare, dichiarano abusivamente i territori attinenti alla costruzione di grandi opere “zone di interesse strategico”, con regimi speciali che modificano e interferiscono con le competenze di gestione del territorio escludendone le amministrazioni locali, con la legge 443 del 21 dicembre 2001, conosciuta come legge obiettivo (“Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive”), e il decreto legge 190 del 20 agosto 2002 (“Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale”) o il decretolegge 133, del 12 settembre 2014 (“recante misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”). Le successive modifiche della posizione governativa nella utilizzazione della legge obiettivo nel caso TAV hanno portato, sulla base di dati falsi, alla decisione della sentenza del Tribunale Amministrativo del Lazio adito sul punto dalla Comunità montana che, in una sentenza (Sentenza 023722014 Tar Lazio 046372011 Reg. Ric), ha dedotto da una nota ministeriale la prova che l’opera non fosse mai uscita dalla legge obiettivo, mentre l’allegato al 7° DPEF 20102013, al quale si riferisce la nota ministeriale, attesta esattamente il contrario. La sentenza è irrevocabile in quanto non impugnata dalla Comunità montana, perché la stessa è stata dichiarata estinta (commissariata) con decreto della Regione Piemonte dopo soli 3 giorni dalla notifica della sentenza.

 che le centinaia di progetti qualificati come strategici possono essere assoggettati (come sta accadendo in Val Susa) al controllo di polizia e militare ed interdetti ai cittadini. Nel caso del cantiere della Maddalena di Chiomonte, da una parte l’articolo 19 della legge 12 novembre 2011, n. 183 (più nota come “legge di stabilità” 2012) prevede, sotto la rubrica «Interventi per la realizzazione del corridoio Torino  Lione e del Tunnel del Tenda» che “le aree ed i siti del Comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria TorinoLione, costituiscono aree di interesse strategico nazionale”, spostando sul luogo truppe dell’esercito italiano. D’altra parte si è proceduto ad una applicazione scorretta dell’art. 2 del Testo Unico di pubblica sicurezza, ampliando in misura esagerata l’aera interessata, e convertendo in permanente un provvedimento, che poteva essere solo transitorio, attraverso successive ordinanze emerse a partire dal 22 giugno 2011 dal prefetto di Torino, che ha assegnato l’area adiacente al cantiere alle forze di polizia, vietando l’accesso, lo stazionamento dell’area, e la circolazione nelle zone limitrofe. Nella loro visita alla zona, i membri di una delegazione del TPP sono stati trattati come potenziali delinquenti. Ciò rende evidente che gli effetti sulla vita quotidiana degli abitanti sono stati enormi, tanto dal punto di vista degli ostacoli posti alle normali attività lavorative (spostamenti da o verso i propri luoghi di residenza e i luoghi di lavoro agricolo), come dal punto di vista del danno morale rappresentato dal fatto di dover continuamente esibire documenti di identificazione ed essere sottoposti all’arbitrarietà degli agenti di forza pubblica per l’autorizzazione o meno al passaggio, o dal fatto di dover essere, in tempo di pace, osservatori impotenti della occupazione delle proprie terre, da parte delle forze armate nazionali, con una azione diretta contro cittadine e cittadini del loro stesso stato. In questo contesto sono represse, in quanto considerate questioni di sicurezza pubblica, le manifestazioni di pensiero e di riunione, e sono accusati perfino di reati di terrorismo coloro che vi prendono parte, affidando alla repressione di polizia e giudiziari problemi di rilevanza democratica e sociale.

- che le persone che si mobilitano contro il TAV, come contro l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes o in altri progetti, devono essere considerate come “sentinelle che lanciano l’allarme” al constatare violazioni di diritto che possono avere un grave impatto sociale ed ambientale e che, con modalità legali, cercano di allertare le autorità in vista della cessazione di atti contrari agli interessi di tutta la società. Accademici, professionisti, amministratori pubblici, lavoratori agricoli, qualsiasi abitante possono svolgere questo ruolo. Nel diritto europeo sono molte e precise le regole e le raccomandazioni che definiscono lo statuto di questa funzione di “sentinelle che lanciano l’allarme”: queste regole sono vincolanti per i giudici dei singoli paesi (Consiglio d’Europa, Résolution 1729 (2010) du 29 avril 2010 e Recommandation CM/Rec(2014)7 du 30 avril 2014).

- che il ricorso alla denigrazione e alla criminalizzazione della protesta è la documentazione più evidente della inconsistenza e della mancanza di credibilità degli argomenti dei promotori delle grandi opere, che mirano a convincere le persone e le comunità colpite della bontà e dei vantaggi dei progetti. In questa attività partecipano in modo determinante i mezzi di comunicazione più diffusi, che sostituiscono con una esplicita disinformazione al servizio degli interessi dei loro proprietari e gestori, la loro funzione di servizio al diritto all’informazione.

- che l’autorizzazione per l’inizio dei lavori per il tunnel della Maddalena è particolarmente grave, in quanto decisa prescindendo: dal principio di precauzione, senza uno studio preliminare di impatto ambientale in grado di definire in modo adeguato il rischio attuale e futuro derivante dalla probabile presenza di amianto e di uranio, e dall’impatto sugli equilibri idrogeologici dell’area; dal principio di prevenzione in quanto non esiste a tutt’oggi un piano definito di analisi e di trattamento del materiale che si sta estraendo. È da notare, tra l’altro, che tutto ciò ha comportato la distruzione ingiustificabile di una necropoli datata a 4000 anni a. C., che rappresentava un elemento fondamentale del patrimonio archeologico della regione, dimostrando in tal modo la mancanza assoluta di sensibilità sociale e culturale dei suoi autori. 29

- che la responsabilità di queste violazioni deve essere attribuita in primo luogo ai governi italiani che si sono succeduti negli ultimi due decenni, alle autorità pubbliche responsabili della assunzione delle decisioni e delle misure che sono state sopra denunciate, ai promotori del progetto e all’impresa responsabile della sua esecuzione TELT (Tunnel Euralpin Lion Turin).

- che la responsabilità di queste violazioni deve essere attribuita anche all’Unione europea che, con la sua omissione di risposte concrete alle denunce ripetutamente formulate dalle comunità colpite e presentate alla Commissione di petizioni del Parlamento europeo e con l’accettazione acritica delle posizioni dello stato italiano, permette il consolidamento e ciò che è ancor più grave, il cofinanziamento di un’opera che si sviluppa in chiara violazione del principio di precauzione, affermato nell’art. 191 del trattato di funzionamento dell’UE, delle direttive europee sulla valutazione di impatto ambientale dei progetti, sull’accesso alla informazione e sulla partecipazione all’adozione di decisioni riguardanti l’ambiente, distorcendo così il criterio di priorità che prevede la costruzione dei collegamenti non ancora conclusi e l’eliminazione di colli di bottiglia specialmente nelle tratte transfrontaliere secondo le corrispondenti e vigenti norme europee (Regolamento UE n. 1315/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’ 11 dicembre 2013, sugli orientamenti dell’Unione per lo sviluppo della Rete transeuropea di trasporto, e Regolamento UE n. 1316/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2013 con il quale si crea il Meccanismo per «Collegare l’Europa»).

- che si sottolinea la particolare gravità e insensibilità del comportamento del coordinatore europeo del corridoio TENT Mediterraneo Laurens Jan Brinkhorst che ha contribuito alla diffusione informazioni non controllate e alla squalificazione della protesta delle comunità di Val di Susa ignorandone i contenuti reali, e stigmatizzandole come poco rappresentative e violente.

- che la non applicazione dei principi di cui sopra volti ad assicurare la partecipazione piena ed effettiva dei cittadini, tanto ben documentata nel caso della Val Susa, non è un caso isolato in Italia come si è avuto occasione di constatare con tutti i casi presentati nelle udienze pubbliche e come il TPP ha potuto constatare in molte altre focalizzate su citazioni extraeuropee.

- che tutto quanto è stato sottolineato, sembra dimostrare la esistenza di un modello consolidato di comportamento nella gestione del territorio e delle dinamiche sociali ogni volta che ci si trova in uno scenario di approvazione e realizzazione delle grandi opere infrastrutturali: i governi sono al servizio dei grandi interessi economici e finanziari, nazionali e sovranazionali e delle loro istituzioni nel disporre senza limiti né controllo dei loro territori e delle loro risorse: si ignorano totalmente le opinioni, gli argomenti, ma ancor più il sentire vivo delle popolazioni direttamente colpite. Ciò rappresenta, nel cuore dell’Europa, una minaccia estremamente grave all’essenza dello stato di diritto e del sistema democratico che deve necessariamente essere fondato sulla partecipazione e la promozione dei diritti ed il benessere, nella dignità, delle persone.

Questa Sessione ha permesso al TPP di apprezzare e condividere la enorme capacità delle comunità di Val di Susa di mettere in comune la loro energia e le loro conoscenze, che sono il risultato di competenze scientifiche e tecniche e di saperi diffusi che derivano da una vita e un lavoro quotidiano con profonde radici nel territorio, e che hanno permesso di costruire una realtà conoscitiva e una narrazione coerenti, convincenti, e tali da permettere di mantenere per 25 anni una lotta esemplare in difesa dei loro diritti fondamentali.

RACCOMANDAZIONI

Constatando che, sia nel caso del TAV Torino – Lione, che nel caso dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, e in tutti i casi esaminati, italiani ed europei (Mose di Venezia, TAV di Firenze, Muos di Niscemi, centrale solare termodinamica in Basilicata, progetti di trivellazione nel territorio italiano, ponte di Messina, autostrada Orte Mestre, bacino delle Alpi Apuane; TAV in Francia, Paesi Baschi, Regno Unito e Germania e, infine, miniera di Rosia Montana in Romania), in questa sessione dedicata a “Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere. Dal Tav alla realtà globale”, il diritto all’informazione e alla partecipazione dei cittadini, così come molti altri diritti fondamentali, sono stati violati,

IL TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI

Raccomanda, nel caso del TAV Torino Lione, agli Stati italiano e francese, di procedere a consultazioni serie delle popolazioni interessate, e in particolare degli abitanti della Val di Susa per garantire loro la possibilità di esprimersi sulla pertinenza e la opportunità del progetto e far valere i loro diritti alla salute, all’ambiente, e alla protezione dei loro contesti di vita. Queste consultazioni dovranno realizzarsi senza omettere nessun dato tecnico sull’impatto economico, sociale e ambientale del progetto e senza manipolare o deformare l’analisi della sua utilità economica e sociale. Si dovranno esaminare tutte le possibilità senza scartare l’opzione “Zero”. Finché non si garantisce questa consultazione popolare, seria e completa, la realizzazione dell’opera deve essere sospesa in attesa dei suoi risultati, che devono essere in grado di garantire i diritti fondamentali dei cittadini.

Raccomanda allo Stato francese, nel caso dell’aeroporto di Notre Dame des Landes, di presentare uno studio documentato sulla opportunità e necessità del progetto e le sue conseguenze sociali, economiche, ambientali e di sospendere la realizzazione dell’opera.

Raccomanda al Governo italiano di rivedere la legge obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio.

Il controllo militare del territorio nella zona del progetto di Val di Susa costituisce un uso sproporzionato della forza. In uno Stato democratico in tempo di pace, l’esercito non può intervenire su affari interni, limitando i diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Convenzione europea dei diritti umani. Il TPP raccomanda al Governo italiano di sospendere la occupazione militare della zona.

Lo Stato italiano deve anche astenersi dal criminalizzare la protesta cittadina, giustificata per l’assenza di concertazione e protetta dalla Costituzione e da molti strumenti internazionali ratificati dall’Italia. Il TPP raccomanda allo Stato italiano di non ostacolare l’espressione della pacifica protesta sociale.

Chiede alla Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte di ispezionare la zona archeologica de la Maddalena per verificare i danni apportati ai reperti dai mezzi militari, secondo testimonianze raccolte sul luogo anche da parte dal Tribunale, così da adottare i provvedimenti di salvaguardia e di ripristino necessari.

Chiede alle istituzioni europee competenti, Commissione europea e Commissione delle petizioni del Parlamento europee di esaminare con la serietà necessaria e in modo critico i progetti presentati dalle imprese promotrice e gli Stati, prendendo in considerazione l’interesse reale delle comunità colpite e delle popolazioni in generale.

Raccomanda ai governi di considerare l’attivazione di grandi opere solo se vagliate da procedure tecniche partecipative serie ed efficaci che ne dimostrino l’effettiva necessità nel sostituire o integrare infrastrutture esistenti di cui sia accertata l’impossibilità di migliorie significative. Di dare priorità rispetto alle grandi opere a programmi vasti ed efficaci inerenti i servizi e le opere di interesse vitale e quotidiano dei cittadini, quali le opere di contrasto di fenomeni idrologici e idrogeologici e situazioni di degrado e di mancanza di manutenzione dell’edilizia e dei trasporti di pubblico interesse.

Il Tribunale raccomanda ai movimenti sociali, alle associazioni e ai comitati che si battono o potrebbero battersi contro le violazioni degli obblighi di cui sopra in materia di grandi opere, di richiedere, esercitando i propri diritti e col necessario vigore, secondo l’esempio di quanto avvenuto pacificamente in Val di Susa, agli Stati e agli altri soggetti tenuti ad assicurare la partecipazione del pubblico alle procedure di deliberazione di grandi opere di praticare in concreto tali procedure fin dall’inizio di ogni attività di deliberazione e per tutta la loro durata, così come richiesto dalla Convenzione di Aarhus; nonché di sperimentare ogni legittimo strumento per costringerveli in caso di inadempimento degli obblighi suddetti, in particolare il ricorso al Comitato sull’adempimento della Convenzione di Aarhus.

Infine, gli Stati hanno il dovere costituzionale di proteggere i diritti dei loro cittadini. Per questo motivo devono perciò assicurare questa protezione contro le lobby economiche e finanziarie nazionali o transnazionali esaminando ogni progetto secondo i criteri definiti da vari trattati internazionali, in particolare la Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 che prevede una informazione adeguata ed efficiente, la partecipazione effettiva dei cittadini durante tutto il processo di decisione e l’obbligo delle istituzioni competenti di tenere in conto in modo adeguato dei risultati derivanti dalla partecipazione dei cittadini. 34

Allegato 1

TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI

Diritti fondamentali, partecipazione delle comunità locali e grandi opere

Dal Tav alla realtà globale

Torino, Almese, 58 novembre 2015

PROGRAMMA

Giovedì 5 novembre, Torino  Fabbrica delle “E”

ore 9.00  APERTURA DELLA SESSIONE

Gianni Tognoni (Segretario generale del Tribunale)

ore 9.15  Esposizione atto d’accusa

Livio Pepino (Controsservatorio Valsusa)

ore 9.30 – 19.00  IL TAV IN VAL SUSA E LA PARTECIPAZIONE NEGATA

1. La situazione della Valsusa in generale

Rapporteur Ezio Bertok (Controsservatorio Valsusa)

Assunzione testimoni e proiezione filmati

2. La partecipazione negata: manipolazione dei dati e delle previsioni

Rapporteur Angelo Tartaglia (professore Politecnico di Torino, componente Commissione tecnica Comunità montana Val Susa e Val Sangone)

Assunzione testimoni e consulenti

3. L’esclusione dei cittadini e delle istituzioni dai processi decisionali

Rapporteur Luca Giunti (naturalista, componente Commissione tecnica Comunità montana Val Susa e Val Sangone)

Assunzione testimoni

4. La sostituzione del confronto con la repressione

Rapporteur Paolo Mattone (Controsservatorio Valsusa)

Assunzione testimoni e proiezione filmati

ore 13.15 – 14.30  colazione di lavoro

****

Venerdì 6 novembre, Torino  Fabbrica delle “E”

ore 9.00 – 19.00

GRANDI OPERE E LESIONI DEI DIRITTI FONDAMENTALI NEL MONDO

1. La situazione italiana (in particolare: Ponte di Messina, Autostrada OrteMestre, Trivellazioni, Stazione ferroviaria Firenze, Rigassificatore Livorno)

Rapporteur Tiziano Cardosi (Forum contro le grandi opere inutili e imposte)

Obiettivo su:

Mose a Venezia (Armando Danella e Cristiano Gasparetto)

Muos a Niscemi (Sebastiano Papandrea)

2. La situazione europea (in particolare: HS2, LGV/TAV Paesi Baschi, Stuttgart 21, miniera d’oro di Rosia Montana)

Rapporteuse Sabine Bräutigam (Forum contro le grandi opere inutili e imposte)

Obiettivo su: Aeroporto di Notre dame de Landes (Geneviève CoiffardGrosdoy, Françoise Verchère,

Thomas Dubreuil)

La procedura del débat public in Francia (Daniel Ibanez)

3. La situazione dell’America Latina

Rapporteur Andrés Barreda (Facoltà di economia, Universidad Nacional Autónoma de México)

ore 13.15 – 14.30

colazione di lavoro

* * * * *

Sabato 7 novembre, Torino  Fabbrica delle “E”

ore 9.00 – 11.00  Spazio per deduzioni e difese dei destinatari dell’atto di accusa

ore 11.00  12.30 REQUISITORIE FINALI

Livio Pepino (Controsservatorio Valsusa)

ore 12.30 Conclusione della Sessione pubblica

* * * * *

Domenica 8 novembre, Almese  Teatro Magnetto, ore 16.00

LETTURA DEL DISPOSITIVO DELLA SENTENZA

 

Allegato 2

ATTO DI ACCUSA

Livio Pepino

1. Compete a me, per il Controsservatorio Valsusa, sintetizzare le ragioni per cui ci siamo rivolti al Tribunale Permanente dei Popoli. Le esporremo e dimostreremo – queste ragioni ‒ nel seguito della procedura con documenti, testimonianze, filmati, racconti. Le dimostreremo con le parole di chi da oltre 25 anni aspetta che gli sia data la parola e che oggi è qui – venuta in massa dalla Valsusa e non solo – per dire che finalmente è una bella giornata. Le dimostreremo – queste ragioni – ma oggi dobbiamo, in apertura dei lavori della sessione del Tribunale, sintetizzarle.

Nell’esposto presentato l’8 aprile dell’anno scorso, abbiamo chiesto al Tribunale due cose fondamentali. Anzitutto abbiamo chiesto di accertare «che nella vicenda della progettazione e costruzione della nuova linea ferroviaria TorinoLione ci sono state gravi e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali della comunità della Valsusa». In secondo luogo abbiamo segnalato e chiesto di partire da qui per dire che la questione da noi posta non riguarda solo una piccola valle alpina ma è la punta dell’iceberg di una situazione generale neocoloniale (non sembri eccessivo il termine) in cui «le scelte relative alla vita e al futuro di intere comunità sono sottratte – anche nel cuore dell’Europa – alle popolazioni interessate ed avocate a sé da grandi poteri economici e finanziari: una situazione in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popoli avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale, ma che rappresenta la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta».

2. Da sempre la difesa dei diritti fondamentali ha visto, a fianco e a sostegno della mobilitazione delle popolazioni interessate (che ne è e resta il presidio fondamentale), l’impegno di singoli e di istituzioni. Anche sul versante giudiziario o (come in questo caso) su versanti ad esso in qualche modo assimilabili.

Un tempo, addirittura in epoca romana, era possibile per un cittadino singolo (e a maggior ragione per un gruppo di cittadini) agire in giudizio contro il governo a tutela dell’interesse generale. E ciò è oggi previsto, con diversa estensione, in alcune Costituzioni, come quelle del Brasile, della Bolivia, della Colombia. Non in Italia dove, al contrario, una giurisprudenza amministrativa formalista e anacronistica continua a ritenere non legittimato ad agire il cittadino che non abbia un interesse personale di carattere economico. Non in Europa, nonostante le timide aperture della Corte dei diritti dell’uomo. Non nell’ampio scenario degli organismi internazionali, posto che persino la Corte penale internazionale – come ha sottolineato il Tribunale Permanente dei Popoli nella sentenza 23 luglio 2008 – ha addirittura escluso dalla sua competenza i crimini economici.

Per questo noi – e con noi le comunità di Notre-Dame-des-Landes, di Londra, Birmingham e Manchester, di Rosia Montana e Corna, di Venezia, di Firenze, della Basilicata, di Niscemi e di tante altre parti d’Italia, d’Europa e del mondo ci siamo rivolti al TPP per ottenere una risposta alla nostra richiesta inascoltata di giustizia.

3. Sappiamo che il giudizio del Tribunale sarà limitato ai profili riguardanti la democrazia e la partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano. E a questa impostazione ci atterremo continuando a far valere altrove – come da 25 anni stiamo facendo – le molte altre buone ragioni che pure abbiamo. Ma un cenno alla situazione della Valsusa è necessario, se non altro perché sia chiaro a tutti di cosa si parla, e quali sono i diritti, i beni, le aspettative su cui chiediamo di poterci esprimere e di avere risposte.

La proposta di una nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione nasce alla fine degli anni Ottanta del Novecento. La previsione iniziale era di una linea ad alta velocità per passeggeri. In seguito la proposta è stata trasformata in quella di una linea destinata anche al trasporto merci (data la caduta verticale della domanda di trasporto di persone su tale linea, ammessa persino da chi propone l’opera). L’attuale progetto prevede una linea di 270 km di cui 144 in territorio francese, 58 di tunnel transfrontaliero ed altri 68 in territorio italiano, incidenti sulla media e bassa Valsusa, già attualmente attraversata dalla linea ferroviaria storica, dalla autostrada A32 (i cui lavori si sono conclusi nel 1994) e da due strade nazionali, oltre che da strade minori.

Sin dalla presentazione del primo progetto si è sviluppata in Valsusa una forte opposizione con il coinvolgimento della popolazione, di amministratori locali, di docenti universitari, di esperti di varie discipline che hanno evidenziato molteplici aspetti critici. Le ragioni dell’opposizione riguardavano e riguardano la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione (essendo, tra l’altro, la montagna da scavare ricca di amianto e uranio), l’inutilità della nuova linee (essendo quella storica utilizzata al 20 per cento delle sue potenzialità), lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica (posto che dieci metri di TAV costano oltre un milione e mezzo di euro) e soprattutto, per i profili che qui rilevano, il carattere autoritario della decisione di costruire l’opera, avvenuta scavalcando popolazione e istituzioni locali. Intorno a questi contenuti e rivendicazioni si è, nel tempo, strutturato un movimento di opposizione ormai noto, anche a livello nazionale e internazionale, come Movimento No TAV, profondamente radicato nel territorio e capace di manifestazioni con decine di migliaia di persone. Orbene questo movimento, in tutte le sue articolazioni (anche quelle istituzionali), è stato sistematicamente escluso dalle decisioni che riguardano la sua vita e il suo futuro. Esattamente come è accaduto, per fare riferimento a precedenti sessioni del Tribunale, in Amazzonia e in Tibet, in Guatemala e nello Zaire e in innumerevoli altre regioni del globo. Esattamente come sta avvenendo in diverse località della Francia, del Regno Unito, della Spagna, della Romania e dell’Italia (per limitarsi alle realtà coinvolte nella attuale sessione).

Questa esclusione sistematica si è manifestata in Valsusa in vario modo ma soprattutto:

a) con la mancanza di procedure di informazione, consultazione e confronto (o con l’adozione di procedure di consultazione puramente apparenti);

b) con la diffusione di dati inveritieri e di previsioni prive di ogni seria base scientifica per influenzare e condizionare l’opinione pubblica e i decisori politici;

c) con la mancata risposta a richieste, appelli, sollecitazioni ed esposti delle istituzioni e di numerosi tecnici e con il parallelo tentativo di trasformare il problema TAV in questione di ordine pubblico.

4. Nessuna vera procedura di consultazione, di coinvolgimento e di concertazione c’è stata dal 1989 ad oggi, nonostante ciò sia espressamente previsto, in maniera vincolante, dall’articolo 6 della Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1988 e soprattutto sia l’ABC della democrazia (che o è partecipazione o non è). Sono cambiate le forme ma non la sostanza:

 inizialmente e sino alla fine del 2001 (periodo in cui è intervenuto, tra l’altro, l’accordo intergovernativo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, che costituisce tuttora il punto di riferimento fondamentale per l’opera) la stessa esistenza delle comunità locali è stata del tutto ignorata. Nessuno si è preoccupato di informarle e di sentirle, e non sono state attivate neppure consultazioni di facciata come quelle previste dalla procedura della Commission nationale du débat public, istituita in Francia legge 95101 del 2 febbraio 1995, o dalla legge n. 69/2007 della Regione Toscana in tema di «promozione della partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali». Nulla;

 poi, a fine dicembre 2001 è intervenuta la cosiddetta legge obiettivo con la quale la precedente situazione di fatto è diventata regola giuridica e anche le amministrazioni locali (e le comunità da esse rappresentate) sono state totalmente escluse dall’iter decisionale delle opere ritenute strategiche per il Paese. La legge obiettivo ha previsto, in sintesi, il trasferimento al Presidente del Consiglio (e al Comitato interministeriale per la programmazione economica) di ogni decisione di rilievo in tema di compatibilità ambientale, localizzazione urbanistica e pubblica utilità delle grandi opere, sostituendo ogni altro permesso, autorizzazione o approvazione di competenza delle amministrazioni centrarli o locali. Quella che fino ad allora era stata una esclusione di fatto è diventata addirittura una esclusione di diritto;

 tra il dicembre 2005 e il dicembre 2006 è sembrato che ci fosse un cambiamento di rotta, ma presto è stato chiaro che si trattava del sistema gattopardesco di «cambiare tutto perché non cambiasse nulla». Ne parlerà Sandro Plano che di quella stagione è stato protagonista. Io mi limito, dunque, a una considerazione: la decisione governativa – imposta dalle grandi manifestazioni del dicembre 2005 – di riportare la linea TorinoLione nell’ambito della “procedura ordinaria” (con accantonamento della legge obiettivo) e di istituire un Osservatorio con l’obiettivo «di realizzare un confronto tra le istanze interessate e di analizzare le criticità dell’opera e le soluzioni da sottoporre ai decisori politico-istituzionali») è stata un fuoco di paglia, o più esattamente un inganno per imbrigliare la conflittualità in valle. Infatti nulla è cambiato nelle procedure amministrative e l’Osservatorio si è rivelato impermeabile a ogni reale discussione sulla effettiva opportunità dell’opera. Fino a quando, nel 2010, è caduta anche la maschera e il Governo ha deciso di «ridefinire le rappresentanze locali in seno all’Osservatorio», ammettendovi «i soli Comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera»;

 la rinnovata operatività della legge obiettivo e l’assunzione, da parte del presidente dell’Osservatorio, del parallelo incarico di capo della delegazione italiana della Conferenza intergovernativa ItaliaFrancia per la realizzazione dell’opera sono stati il definitivo suggello della estromissione totale delle comunità locali dalle decisioni concernenti l’opera.

5. Ma tale estromissione è avvenuta anche con la diffusione di dati inveritieri e di previsioni prive di ogni seria base scientifica per influenzare e condizionare l’opinione pubblica e i decisori politici. Forniremo ampia prova di ciò nel seguito della sessione ma fin d’ora va sottolineato come tutta la strategia informativa dei promotori dell’opera sia stata finalizzata a dimostrare la prossima saturazione della linea storica che, al contrario, è attualmente utilizzata solo al 20 per cento delle sue potenzialità, e il prevedibile aumento dei traffici sulla direttrice in questione (smentito dalle previsioni più attendibili e soprattutto dalle verifiche intervenute medio tempore che hanno visto un costante calo di traffico).

Tutto ciò non è casuale ma risponde a un disegno preciso. L’accordo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, che resta tuttora l’atto fondamentale relativo alla Torino-Lione, subordina, infatti, espressamente, nell’articolo 1, la realizzazione della nuova linea alla saturazione della linea storica, come ribadito anche nel dibattito parlamentare che ha preceduto la ratifica dell’Accordo da parte del Parlamento francese, in cui si è espressamente dato atto che «la saturazione della linea esistente è precondizione indispensabile».

La diffusione, a sostegno della decisione di realizzare l’opera, di dati inveritieri e fantasiosi e di previsioni scientificamente inattendibili, recepite e amplificate dai più importanti organi di stampa (nei cui consigli di amministrazione siedono, in molti casi, esponenti di gruppi interessati all’opera) ha espropriato i cittadini del diritto di interloquire, ha realizzato una lesione del diritto all’informazione (la cui natura di diritto fondamentale è sempre più evidente in questo inizio di millennio) e ha rivelato una commistione di interessi di decisori politici e operatori economici e finanziari che mina alla base una democrazia sostanziale.

6. Espulsa dai luoghi delle decisioni e privata di una informazione attendibile la comunità della Valsusa, i suoi enti locali, i tecnici e gli intellettuali ad essa vicini hanno prodotto decine di richieste, appelli, proposte, denunce su profili specifici di illegittimità dell’opera in tutte le sedi istituzionali italiane ed europee senza mai ottenere un confronto nel merito e, a maggior ragione, senza mai avere risposta agli argomenti e alle critiche prospettati. Anzi c’è stato addirittura un ostentato rifiuto delle istituzioni governative e delle società incaricate della realizzazione dell’opera di dare risposta agli interrogativi, alle obiezioni, alle critiche del Movimento No TAV e degli esperti (con la sola eccezione del Governo Monti che, il 9 marzo 2012, ha pubblicato sul proprio sito istituzionale le ragioni a favore dell’opera riassunte in 14 punti, aprendo così un confronto peraltro interrotto dopo le controdeduzioni dei tecnici della comunità valsusina).

Non solo ma, per condizionare ulteriormente l’opinione pubblica nazionale, il cui consenso nei confronti delle rivendicazioni No TAV, nonostante tutto continua a crescere sino a toccare – secondo l’ultima indagine demoscopica realizzata dall’ISPO di Mannheimer nel 2012 per il Corriere della Sera – il 44 per cento degli italiani, si è aperta una nuova fase: quella della trasformazione del movimento in un nemico pubblico. Si sono così varate (nel 2011 e nel 2013) leggi con cui il cantiere della Maddalena è stato trasformato in «sito di interesse strategico» (con divieti penalmente sanzionati finanche di condotte ostruzionistiche, di riproduzione fotografica e via elencando) e il territorio della valle è stato letteralmente militarizzato, addirittura facendo ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra all’estero. Con tutto quel che ne è seguito anche in termini di dura repressione giudiziaria, in una prospettiva nota a livello planetario e di recente presa in esame dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo che, nella sentenza 29 maggio 2014 (concernenti esponenti del popolo Mapuche contro lo Stato del Cile), ha espressamente censurato gli interventi istituzionali finalizzati a produrre «paura in altri membri della comunità coinvolti in attività di protesta sociale e di rivendicazione dei loro diritti territoriali o che intendono eventualmente parteciparvi».

7. La situazione determinatasi in Valsusa fa venire alla ribalta – come si è già anticipato – questioni fondamentali di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali sempre più diffuse in ogni parte del globo e già oggetto di esame da parte del Tribunale (da ultimo nel caso relativo alle “Politiche delle transnazionali in Colombia”, definito con sentenza 23 luglio 2008). Si tratta di questioni convergenti nel definire lo snodo – decisivo nell’età contemporanea – della pretesa di autonomia dell’economia (e, per essa, dei decisori politici, delle imprese, dei grandi gruppi finanziari) da ogni vincolo, ivi compresi quelli conseguenti al rispetto dei diritti fondamentali delle persone e dei popoli reali.

La totale e sistematica esclusione della popolazione locale e delle istituzioni territoriali ha a che fare con le regole e i princìpi minimi della democrazia. Quando si arriva a dichiarare cantieri e discariche «siti strategici di interesse nazionale», assimilandoli a installazioni militari e difendendoli attivamente con i soldati – l’esercito in tempo di pace! – i cittadini si sentono defraudati dei loro diritti e si convincono che lo Stato ha dichiarato loro guerra. Né ciò può trovare giustificazione in un asserito potere di maggioranza a cui la minoranza dovrebbe comunque sottomettersi in ossequio all’“interesse generale”. Ché – per riprendere gli insegnamenti di un illustre costituzionalista – in tema di rapporto tra maggioranza e minoranze:

«nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. Entrambe [la maggioranza e la minoranza, ndr] attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate. […] La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti». (G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Einaudi, 2007);

8. Che quelli violati siano diritti fondamentali è fuori dubbio sol che si guardi al diritto che si assume violato: quello di partecipare, di concorrere alle decisioni che riguardano il proprio habitat, la propria vita e la propria salute e la vita e la salute delle generazioni future.

Il carattere di “diritti fondamentali” di tali situazioni soggettive risulta in maniera evidente dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani”, approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. In tale Dichiarazione, premesso che «è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione», si afferma espressamente – tra l’altro – che «ogni individuo ha diritto a un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge» (articolo 8) e che «ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti» (art. 21, punto 1).

Quelle sin qui indicate sono violazioni che il Tribunale Permanente dei Popoli ha ben individuato, nella sentenza 23 luglio 2008 relativa alle “Politiche delle transnazionali in Colombia”, in un passaggio che sembra scritto per la Valsusa e per l’Europa laddove accerta e denuncia una diffusa violazione del «diritto di partecipazione», intervenuta

nonostante tutti i testi normativi di riferimento riconoscano il diritto delle popolazioni a partecipare ai processi decisionali sulle questioni che riguardano i loro diritti: in particolare, il diritto a essere consultati al fine di ottenere il consenso libero, previo e informato prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li danneggino, prima di adottare qualsiasi progetto che comprometta le loro terre o territori o altre risorse, in particolare in relazione allo sviluppo, uso e sfruttamento delle risorse minerali, idriche e di altro tipo, e prima di utilizzare le loro terre o territori per operazioni militari.

9. È alla luce di tutto questo che sottoponiamo al Tribunale Permanente dei Popoli la nostra domanda di giustizia. Consapevoli che le grandi opere e le pratiche che le accompagnano, in Valsusa e nel mondo, non esauriscono i loro effetti nella costruzione di un megaponte o nel traforo di una montagna o nell’abbattimento di una foresta ma incidono – come l’esperienza di questi anni insegna – sui meccanismi complessivi di funzionamento delle istituzioni e della stessa democrazia. Al TPP chiediamo di dire che oltre il colonialismo classico esercitato su Paesi lontani dall’Europa, c’è – non sembri eccessivo il termine – un colonialismo interno all’Europa che mortifica le persone e i loro diritti, tracciando linee ferroviarie e grandi opere come un tempo si tracciavano con una linea sulla carta geografica i confini di nuovi Stati (così ponendo le premesse per guerre e atrocità di ogni genere). Al TPP chiediamo, con grande rispetto per le sue prerogative ma con altrettanta determinazione, che restituisca alle comunità violate la convinzione che partecipazione e democrazia possano essere realtà e non solo parole strumentalmente usate per coprire lo sfruttamento di persone e popoli da parte dei più forti.

Daremo al Tribunale la nostra convinta collaborazione. Ci auguriamo che i promotori dell’opera accettino il contraddittorio, quel contraddittorio che a noi è stato negato. Altri – non noi – temono il confronto.

Con questi auspici, con questi impegni e con queste speranze diamo il nostro contributo alla apertura della sessione del Tribunale.

Torino, 14 marzo 2015

Allegato 3

REQUISITORIE FINALI

Livio Pepino

1. Presidente, giudici,

compete a me, in rappresentanza dei ricorrenti, tirare le somme di queste due giornate e rivolgere a voi le nostre richieste. Lo faccio – non lo nascondo – con grande emozione. Mi è accaduto spesso, in oltre 40 anni di magistratura, di assumere conclusioni in processi complessi e delicati. Ma oggi è diverso. Perché, mano a mano che procedevano i lavori, è accaduta una cosa inedita: i ricorrenti sono come scomparsi e la scena è stata occupata da un movimento di popolo imponente che, con forza e determinazione, ha chiesto giustizia. Si tratta di un movimento di cui la comunità della Val Susa è, in qualche modo, esponenziale. Di un movimento che dalla fine del secondo millennio si aggira per l’Italia e per l’Europa (come è emerso in maniera articolata nella giornata di ieri) sull’onda di quanto, da oltre un secolo, accade nei paesi del Sud del mondo, in Africa, in Asia, in America latina, con decine di lotte in difesa del territorio e dei diritti dei popoli (come sta scritto in numerose vostre sentenze, a partire dalla prima, dell’11 novembre 1979 sul Sahara Occidentale e poi in quelle su Timor Est, sull’Amazzonia brasiliana, sulla Colombia e via elencando sino alla più recente, pronunciata appena un ano fa, su «libero commercio, violenza, impunità e diritti dei popoli in Messico»). Quel movimento è stato il protagonista di queste giornate.

In questi giorni avete toccato con mano uno scorcio di realtà illuminante. Avete visto volti e sentito voci di donne e di uomini informati, responsabili, determinati: i ragazzi di Bussoleno (che vi hanno parlato delle loro motivazioni e anche delle paure che le lobby del TAV cercano di suscitare), i pensionati di Borgone (che, da dieci anni, ogni giorno che Dio manda in terra abitano il loro presidio in difesa del territorio della Valle), l’assessora di Chiomonte (che, pur inizialmente favorevole al TAV, si dimette in lacrime di fronte alla devastazione della Maddalena), i professori del Politecnico (che da decenni gridano nel deserto delle istituzioni e della politica la follia di quest’opera), Emilio, il pescivendolo di Bussoleno (che – come vi ha detto con orgoglio – non aveva mai visto un giudice prima di cominciare ad occuparsi di TAV e che chiede per sua figlia la salute che lui e sua moglie hanno perduto), Luca (che non parla di sé e della sua caduta dal traliccio ma del futuro della terra e delle montagne) e molti altri ancora. Non avete visto e ascoltato dei luddisti irragionevoli, degli Asterix e degli Obelix fuori dal tempo e dalla storia e tantomeno dei pericolosi terroristi (come pure sono stati presentati e trattati). Lo so bene: tutto questo non significa ancora che quel movimento, quegli uomini e quelle donne, abbiano ragione. Ma significa che meritano rispetto, attenzione, ascolto: tutte cose che in questi anni sono state loro negate dalle istituzioni e dalla lobby delle grandi opere (una lobby economica, politica, informativa che domina questa regione e questo Paese solo scalfita, qualche volta, da indagini e arresti per corruzione e malaffare).

Avete visto e sentito, in questi giorni, pezzi di realtà. Non le rappresentazioni deformate dei media, della politica che conta, di pezzi della magistratura. Non i meravigliosi scenari di carta patinata e i video propagandistici; non le mirabolanti descrizioni di giornali appartenenti a società nei cui consigli di amministrazione siedono i proponenti e gli aspiranti costruttori dell’opera; non gli spot elettorali di ministri che, come emerso da alcune intercettazioni telefoniche, non distinguono un’autostrada da una ferrovia e di sindaci che confondono Kiev (stazione finale prevista del corridoio ferroviario in cui è inserita la Torino-Lione) con Mosca o con Pechino. A fronte di queste corrazzate mediatiche e pubblicitarie il movimento di opposizione sembra un piccolo Davide impegnato in una lotta impari contro Golia. Ma la partita è aperta. E il movimento No TAV è determinato a vincerla, continuando ostinatamente a condurla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Anche per questo ci siamo rivolti a voi, a un tribunale internazionale e indipendente, consapevoli che questa è solo una tappa, ma convinti che sia una tappa importante per la Val Susa e per tutte le comunità che versano in situazioni analoghe.

2. Nel dichiarare l’ammissibilità del nostro ricorso, il 20 settembre 2014, la presidenza del Tribunale ha precisato l’oggetto e i limiti di questo giudizio che riguarda – per usare le vostre parole – «l’effettività delle procedure di consultazione delle popolazioni coinvolte e la loro incidenza sul processo democratico», in un contesto in cui si diffondono le «situazioni ‒ più volte rilevate anche in sessioni del TPP – che mettono in discussione e in pericolo l’effettività e il senso delle consultazioni e la pari dignità di tutte le varie componenti delle popolazioni interessate».

Di questo, dunque, ci siamo occupati prevalentemente in questi giorni: di diritti delle persone e delle comunità e di partecipazione. Di democrazia potremmo dire, se il termine non fosse sempre più spesso utilizzato a copertura di scelte che vanno in direzione opposta e di regimi che tutto sono meno che democratici. Ci siamo occupati, più nello specifico, del rapporto tra diritti fondamentali e modalità (e limiti) delle decisioni politiche ed economiche quando queste hanno per oggetto opere che incidono in maniera irreversibile sull’ambiente, sulla economia, sulla salute di decine di migliaia di persone. Come sono le grandi opere di cui abbiamo parlato in questi giorni: il TAV in Val Susa (ma anche a Firenze, nel Regno Unito e nei Paesi Baschi), le dighe del Mose a Venezia, il ponte di Messina (incredibilmente ritornato di attualità in questi giorni), l’aeroporto di Notre Dame des Landes in Francia e molte altre. Opere a cui abbiamo affiancato altri interventi di devastazione ambientale che seguono la stessa logica, come la miniera d’oro a cielo aperto di Rosia Montana in Romania (le cui immagini sinistre ci ricordano quelle di miniere simili nel Perù e nel Cile), le trivellazioni alla ricerca di gas e petrolio in diverse regioni d’Italia, lo sfruttamento intensivo delle cave di marmo nelle Alpi Apuane, il Muos a Niscemi.

Siamo partiti dal TAV in Val Susa: un’opera ciclopica devastante (il cantiere che alcuni di voi hanno visto mercoledì scorso riguarda solo una galleria propedeutica ed è, dunque, una piccola anticipazione di quanto si vorrebbe fare…), di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa pubblica. E, contemporaneamente, un’opera – sta qui il primo punto di questa sessione – decisa in modo autoritario, con la esclusione sistematica di ogni confronto reale con la comunità territoriale.

Esattamente – ed è questo un secondo snodo della sessione  come accaduto in tutte le grandi opere in corso di progettazione o costruzione esaminate in questi giorni. Ed esattamente come accertato – è il terzo passaggio da sottolineare – in precedenti sessioni di codesto Tribunale come quelle relative alla Amazzonia al Guatemala e al Canada e in innumerevoli altre regioni del globo.

Ciò rinvia a un sistema che si ripete con sostanziale identità per tutte le grandi opere inutili e che si articola in tre fasi fondamentali:

a) la sistematica estromissione delle popolazioni interessate dalle decisioni e dal controllo sull’iter dell’opera, realizzata escludendo, di fatto e/o mediante provvedimenti legislativi e amministrativi ad hoc, ogni procedura di informazione, consultazione e confronto e/o adottando procedure di consultazione puramente apparenti e/o disattendendo le consultazioni effettuate;

b) il condizionamento e lo sviamento delle valutazioni delle comunità interessate, dell’opinione pubblica e talora degli stessi decisori politici mediante la manipolazione dei dati relativi all’utilità e all’impatto delle opere, nonché l’elaborazione al riguardo e la conseguente diffusione di dati inveritieri e di previsioni prive di ogni seria base scientifica (amplificati in modo martellante da organi di stampa spesso controllati da soggetti interessati all’opera);

c) la permanente e totale impermeabilità a richieste, appelli, sollecitazioni ed esposti di istituzioni territoriali, comitati di cittadini, tecnici e intellettuali e la parallela gestione della protesta e dell’opposizione come problemi di ordine pubblico demandati, talora anche grazie ad appositi provvedimenti legislativi, al controllo militare del territorio e all’intervento massiccio degli apparati repressivi (con significative limitazioni di diritti dei cittadini costituzionalmente garantiti).

3. Nell’impossibilità di ripercorrere il modo in cui questo sistema si è atteggiato nelle singole vicende esaminate in questi giorni, mi limiterò all’esame di come ciò è accaduto in Val Susa (con qualche flash sulle altre situazioni).

Comincio dalla mancanza di vere procedure di consultazione, di coinvolgimento e di concertazione. Procedure – merita ricordarlo – che sono oggi previste in modo esplicito da specifiche fonti normative internazionali, a partire dalla Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 (ricordata ieri con grande efficacia da Tiziano Cardosi e da Sabine Bräutigam) secondo cui «quando viene avviato un processo decisionale che interessi l’ambiente, il pubblico interessato è informato in modo adeguato, efficace e a tempo debito, fin dall’inizio» in modo che «si prepari e partecipi effettivamente ai lavori durante tutto il processo decisionale». Ma, prima ancora, procedure che costituiscono l’ABC della democrazia (la quale o è partecipazione o, semplicemente, non è).

Ebbene, in Val Susa è avvenuto questo:

a) dai primi anni Novanta sino alla fine del 2001 (periodo cruciale, in cui è intervenuto l’accordo intergovernativo Italia-Francia del 29 gennaio 2001 che costituisce la base normativa dell’opera) è stata ignorata la stessa esistenza delle comunità locali. Nessuno si è preoccupato di informarle e di sentirle (come hanno analiticamente documentato, tra gli altri, Ezio Bertok, Claudio Giorno, Gianfranco Chiocchia);

b) poi, a fine dicembre 2001, è intervenuta la cosiddetta legge obiettivo (tuttora in vigore), con la quale la precedente situazione di fatto è diventata regola giuridica. Con essa – come è stato illustrato da Luca Giunti e da Massimo Bongiovanni  le amministrazioni locali sono state totalmente escluse dall’iter decisionale delle opere ritenute strategiche per il Paese, con attribuzione di ogni decisione di rilievo al Presidente del Consiglio (e al Comitato interministeriale per la programmazione economica). Si è così stabilito per legge che, per il TAV (e per le opere consimili), la partecipazione e il controllo delle comunità interessate sono una inutile perdita di tempo! Superfluo dire che il principio ha fatto scuola tanto che – come documentato ancora dall’avvocato Bongiovanni – nel breve periodo in cui il TAV è uscito dalla procedura della legge obiettivo, si è continuato, in concreto, ad agire come se nulla fosse cambiato…;

c) nel 2006 è stato fatto balenare un cambiamento di rotta in senso partecipativo. Alcune grandi manifestazioni popolari hanno imposto al Governo di centro sinistra, seguito nel maggio 2006 al Governo Berlusconi, l’istituzione un Osservatorio per «realizzare un confronto tra le istanze interessate e analizzare le criticità dell’opera e le soluzioni da sottoporre ai decisori politico-istituzionali». Ma presto è stato chiaro che si trattava del sistema gattopardesco di «cambiare tutto perché non cambiasse nulla». Ne hanno parlato qui i sindaci e i tecnici che hanno partecipato alla prima fase dei lavori dell’Osservatorio o che con esso hanno, nel tempo, interloquito (Sandro Plano, Loredana Bellone, Angelo Tartaglia, Luca Giunti). Io mi limito a tre rilievi riassuntivi perché si tratta di una vicenda assolutamente esemplare:

- l’istituzione dell’Osservatorio è stata, a ben guardare, un inganno per imbrigliare la conflittualità in valle. Infatti esso si è presto mostrato impermeabile a ogni reale discussione sulla opportunità dell’opera fino a quando, nel 2010, è caduta anche la maschera e il Governo ha deciso di «ridefinire le rappresentanze locali in seno all’Osservatorio», ammettendovi «i soli Comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera»;

-nel suo concreto funzionamento l’Osservatorio si è dimostrato un organismo di pura propaganda, spregiudicatamente gestito dal suo presidente, architetto Virano. Lo segnala in modo scolastico la vicenda del cosiddetto accordo di Pra Catinat del giugno 2008, ossessivamente richiamato in Italia e in Europa, sull’onda delle assicurazioni dell’architetto Virano, come prova di coinvolgimento e partecipazione delle istituzioni locali. In realtà non fu un accordo ma un documento sottoscritto dal solo presidente (e confesso che mai, in 40 anni di attività giudiziaria, mi è accaduto di vedere un accordo firmato da una sola delle parti…) in relazione al quale è illuminante il racconto di uno degli amministratori coinvolti, l’allora sindaca di Condove Barbara De Bernardi (che pure era stata tra coloro che avevano dato maggior credito all’Osservatorio), effettuato davanti ad alcuni di voi nella seconda parte della seduta inaugurale di questa sessione, il 14 marzo scorso a Bussoleno (e che potete leggere nel quaderno n. 3 del Controsservatorio):

«Si arriva così al 28 giugno 2008, quando il Presidente dell’Osservatorio convoca una riunione conclusiva a Pra Catinat. Quel pomeriggio ricevo una telefonata da parte di un giornalista di una testata nazionale, che mi chiede una dichiarazione sulla mia firma all’Accordo di Pra Catinat. Cado dalle nuvole. Anche perché mi trovo a 1000 Km di distanza, in Puglia. Ovviamente non ho firmato nulla, né ho delegato qualcuno a farlo al posto mio. Telefono ad alcuni colleghi: anche loro non sono andati a Pra Catinat e anche loro non hanno firmato alcun accordo. Eppure questo è il tenore dei titoli dei giornali del 29 giugno: «Raggiunto l’accordo. Siglata l’intesa sindacigoverno sul tracciato della linea» (così il Corriere della Sera). […]

Chiudo quindi con una domanda, alla quale purtroppo ho già dato risposta: cosa c’è di peggio di uno Stato che non ascolta i cittadini e i loro rappresentanti liberamente e democraticamente eletti? Di peggio c’è uno Stato che mente. Che mente in casa propria e fuori, servendosi di firme mai poste, di accordi mai siglati e di media compiacenti, che anziché cercare la verità si limitano a far da cassa di risonanza a una menzogna. Quasi che una falsità, più volte ripetuta, possa diventare vera. Si è spesso sentito parlare in questi anni della violenza del Movimento No TAV. Chiediamoci, ancora una volta, chi siano in questa storia davvero i “violenti”».

 - ma, come si dice, il tempo è galantuomo e il senso reale della operazione Osservatorio è stato svelato negli anni: con la assunzione, da parte del suo presidente, dapprima, del parallelo incarico di capo della delegazione italiana della Conferenza intergovernativa Italia-Francia per la realizzazione dell’opera, e poi, senza soluzione di continuità, di quello di direttore della società preposta alla realizzazione dell’opera. Per usare una terminologia calcistica: non c’è mai stato un arbitro neutrale di una partita regolare e onesta, ma solo un giocatore in più di una delle squadre in campo;

d) infine – ed è storia di oggi – la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è rientrata sotto la disciplina della legge obiettivo, rinforzata, se possibile, da un nuovo intervento legislativo (il cosiddetto “decreto sblocca Italia” del settembre 2014) che, con il dichiarato scopo di «superare la burocrazia e di ridare slancio all’economia e alla iniziativa privata», ha formalizzato il principio che, con riferimento alle opere medie e grandi di trasformazione del territorio, non c’è alcuna necessità di ascoltare le popolazioni interessate.

Ho parlato fin qui di Val Susa, ma è esattamente la stessa esclusione che ha caratterizzato, per esempio, l’autostrada Orte Mestre (di cui persino i sindaci interessati ignorano l’esistenza) o l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes (sottratto ad ogni procedura di confronto perché la relativa deliberazione era intervenuta 10 giorni prima dell’approvazione della legge sul débat public) o, ancora, la linea ferroviaria tra Londra e Birmingham.

4. La seconda costante del “sistema grandi opere” sta – come si è detto – nella elaborazione e nella diffusione di dati inveritieri e di previsioni prive di ogni seria base scientifica per determinare l’accettazione dell’opera da parte delle comunità interessate, dell’opinione pubblica e talora degli stessi decisori politici. È una costante anche in altri campi: basti ricordare lo scandalo Volkswagen al centro della scena in questi giorni (che peraltro, rispetto a quanto è accaduto e accade con riferimento al TAV TorinoLione, sembra un’opera di maldestri dilettanti).

Nel caso Val Susa il metodo assume una connotazione per così dire “di scuola”. Lo hanno documentato molti: da Tartaglia a Ponti, da Cancelli a Franchino, da Clerico a Tomalino. Non ripeto, dunque, cose dette e illustrate in maniera ben più efficace di quanto potrei fare io. Mi limito a sottolineare che tutte le previsioni fatte con riferimento a scadenze già maturate sono state clamorosamente smentite dai dati reali e a ricordare, quanto alle previsioni, che – come vi ha detto il professor Cancelli – quelle dei proponenti sono fondate su modelli, elaborazioni e grafici così fantasiosi che, se esposti da uno studente del secondo anno di qualunque facoltà scientifica, gli costerebbero l’immediata bocciatura e da aver meritato, in un caso, l’inserimento in rete da parte di studenti della facoltà di fisica con il significativo titolo: “il grafico del cappellaio matto”. E tutto ciò – qui sta il punto fondamentale – non per caso, per superficialità o per ignoranza ma per sostenere la necessità e l’urgenza di un’opera in realtà insostenibile e inutile.

Il fatto è che l’accordo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, che resta tuttora l’atto fondamentale relativo alla Torino-Lione, con una inconsueta irruzione di razionalità e di buon senso, ha subordinato la realizzazione della nuova linea alla saturazione di quella storica, e ciò è stato ribadito, per esempio, nel dibattito parlamentare che ha preceduto la ratifica dell’Accordo da parte del Parlamento francese, in cui si è espressamente dato atto che «la saturazione della linea esistente è precondizione indispensabile» della costruzione della nuova linea. Orbene, a fronte di ciò, i cosiddetti errori di calcolo e l’insostenibilità scientifica delle previsioni diffuse a piene mani dai promotori, dal presidente dell’Osservatorio, da ministri, sindaci e giornalisti embedded null’altro sono, in realtà, che prospettazioni inveritiere, consapevolmente dirette a ingannare le comunità locali, l’opinione pubblica, i (pochi) decisori politici nazionali e internazionali in buona fede e a convincerli che la linea storica è prossima a saturazione. E ciò mentre la stessa è attualmente utilizzata solo al 20 per cento delle sue potenzialità e in un contesto in cui i traffici sulla direttrice in questione, lungi dall’aumentare, sono in calo verticale (come confermato dalle rilevazioni intervenute medio tempore).

L’effetto è evidente. La diffusione di quei dati e di quelle previsioni, recepiti e amplificati dalla stampa amica (cioè da tutti i più importanti organi di informazione) ha moltiplicato il potere di condizionamento delle grandi lobby economiche e finanziarie, realizzato una lesione macroscopica del diritto all’informazione della comunità locale e nazionale ed espropriato i cittadini del diritto di partecipare e interloquire, minando alla base una democrazia sostanziale.

Anche qui: non vi sembra di sentire lo stesso racconto, gli stessi inganni che avete ascoltato per il Mose di Venezia, o per la stazione di Stoccarda o per la miniera a cielo aperto di Rosja Montana?

5. Si arriva così al terzo elemento fisso dello schema che caratterizza il sistema delle grandi opere: la sostituzione del confronto con lo scontro e la costruzione degli oppositori come nemici della società da isolare, neutralizzare, reprimere.

Espulsa dai luoghi delle decisioni e privata di una informazione attendibile la comunità della Val Susa, i suoi cittadini, i suoi enti locali e i suoi tecnici ‒ affiancati da intellettuali, sindacalisti, uomini della cultura e delle chiese, cittadini di ogni parte d’Italia ‒ hanno prodotto decine di richieste, appelli, proposte, denunce su profili specifici di illegittimità dell’opera in tutte le sedi istituzionali italiane ed europee senza mai ottenere un confronto nel merito e, a maggior ragione, senza mai avere risposta alle critiche e agli argomenti e prospettati (che sono stati ricordati qui, tra gli altri, da Paolo Mattone e Paolo Prieri e che sono documentati nel Q2 del Controsservatorio, inserito nei materiali che sono stati prodotti). In luogo del dialogo c’è stato un ostentato rifiuto delle istituzioni governative e delle società incaricate della realizzazione dell’opera di dare risposta agli interrogativi, alle obiezioni, alle critiche del Movimento No TAV e degli esperti (con la sola eccezione del Governo Monti che, il 9 marzo 2012, ha pubblicato sul proprio sito istituzionale le ragioni a favore dell’opera riassunte in 14 punti, aprendo così un confronto peraltro interrotto dopo le controdeduzioni dei tecnici della comunità valsusina). Neppur prese in considerazione, poi, sono state le richieste di sospendere i lavori e di aprire un tavolo di confronto sulle questioni fondamentali implicate dall’opera con tecnici indipendenti di provenienza extranazionale alle cui conclusioni subordinare il seguito di quei lavori. E ciò anche quando, meno di un anno fa, l’ennesimo scandalo e gli arresti eccellenti che hanno riguardato le grandi opere, hanno portato alla sostituzione del ministro delle infrastrutture, rimasto anch’egli totalmente silente di fronte alle richieste di merito provenienti dalla Valle.

Ne avete avuto la riprova, del resto, voi stessi con la mancata risposta che i proponenti dell’opera, le società costruttrici e le istituzioni responsabili delle decisioni politiche hanno opposto all’invito del Tribunale a confrontarsi con noi in questa sede e finanche con il rifiuto, di fatto, della società costruttrice a consentire la visita di una vostra delegazione al cantiere della Maddalena per avere chiarimenti e delucidazioni, in contraddittorio con tecnici indicati dal Controsservatorio, sull’entità dei lavori, i rischi ambientali e ogni altro profilo di interesse.

Ciononostante il consenso dell’opinione pubblica nazionale nei confronti delle rivendicazioni No TAV ha continuato a crescere sino a toccare nel 2012 – nell’ultima indagine demoscopica nota, realizzata per uno dei più grandi quotidiani italiani, il Corriere della Sera – il 44 per cento degli italiani.

Anche per questo si è aperta una nuova fase: quella della trasformazione del movimento in nemico pubblico. Sono state così varate (nel 2011 e nel 2013) due leggi con cui il cantiere della Maddalena è stato trasformato in «sito di interesse strategico» e il territorio della valle è stato letteralmente militarizzato, addirittura facendo ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra all’estero (come vi hanno illustrato, tra gli altri, Paolo Mattone, Alessandra Algostino, Alberto Perino e Guido Fissore). A ciò ha fatto seguito una repressione giudiziaria durissima che – come ha illustrato qui l’avvocato Novaro e come è documentato nel primo quaderno del Controsservatorio Valsusa prodotto agli atti ‒ ha visto centinaia di processi con oltre mille imputati anche per episodi di estrema modestia, misure cautelari prolungate e reiterate, applicazioni estensive della figura del concorso di persone nel reato, reviviscenza di reati di opinione (con il rinvio a giudizio dello scrittore Erri De Luca per istigazione a delinquere per aver sostenuto, con riferimento ad azioni di taglio delle reti del cantiere di Chiomonte, la liceità del “sabotaggio”) e persino contestazioni di terrorismo (disattese dai giudici di merito e dalla Corte di cassazione, ma fonte, per alcuni giovani, di lunghe carcerazioni in condizioni di isolamento).

Anche questo passaggio sembra coincidere, finanche nelle fotografie degli scontri, nel numero degli arrestati, nei tempi dei processi, nella disparità di trattamento, nelle imputazioni contestate con quanto accaduto a Notre-Dame-des-Landes, a Niscemi, a Stoccarda, nei Paesi baschi, a Rosja Montana e via seguitando. E ciò nell’ambito di uno schema ricorrente (anche al di là delle grandi opere), che irrigidisce gli apparati e limita in maniera crescente i diritti costituzionali dei cittadini. È lo schema del diritto penale del nemico, i cui effetti sono stati descritti e criticati in ultimo dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo, nella sentenza 29 maggio 2014 (concernente esponenti del popolo Mapuche contro lo Stato del Cile), anche perché diretto a provocare «paura in altri membri della comunità coinvolti in attività di protesta sociale e di rivendicazione dei loro diritti territoriali o che intendono eventualmente parteciparvi».

6. Quello che è accaduto e accade in Val Susa è dunque accaduto e accade in situazioni molteplici, con modalità sovrapponibili o, comunque, analoghe.

Siamo, in altri termini, di fronte a un metodo, a un sistema.

Di questo sistema ieri l’altro, in una domanda del presidente è stato chiesto il perché? Per quali ragioni si continua a insistere sulle grandi opere se sono fonte di gravi rischi ambientali e di conclamata inutilità economica? La domanda, assolutamente pertinente, ci porta nel cuore del problema. L’insistenza, apparentemente incomprensibile, sulle grandi opere si spiega con la congiunzione di diversi elementi. Tre su tutti: l’esistenza sottostante di grandi interessi economici e finanziari, la sopravvivenza di una cultura sviluppista (o di un’idea di sviluppo) tanto anacronistica quanto dura a morire, la disperazione di un sistema politico incapace di dare alla crisi vie di uscita razionali:

a) ieri Tiziano Cardosi ha ricordato l’analisi di Salvatore Settis: «le grandi opere non servono, ma serve farle», come dimostra il fatto che spesso vengono finite anni o addirittura decenni dopo la data prevista o addirittura non vengono proprio finite. Non sembri un paradosso. Non c’è opera di cui si è parlato in questi giorni che non movimenti miliardi di euro. Somme ingenti a preventivo, destinate a moltiplicarsi a consuntivi. Si è parlato qui di raddoppio o di triplicazione. Non è così. È molto peggio. Cito un solo esempio: per la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano (tutta in pianura, senza una collina da bucare e con soli due fiumi da superare) si è passati dalla previsione, effettuata nel 1991 e convertita in euro, di un costo di 1 miliardo e 74 milioni di euro alla spesa effettiva, alla fine dei lavori (nel 2010), di 8,3 miliardi. In tempi di crisi sono belle somme… Soprattutto se si considera che si tratta pressoché totalmente di soldi pubblici, anticipati da banche che si garantiscono interessi ingenti e sicuri per decenni a venire. Non è razionale? Certo, non lo è! Ma erano forse razionali i prestiti subprime che hanno innescato la crisi finanziaria più rilevante del nuovo millennio, con danni gravissimi per i risparmiatori e nulli per le banche salvate dagli Stati? È, appunto, un “modello di sviluppo” che serve ai grandi poteri economici e finanziari;

b) la cultura sviluppista è quella che continua, a dispetto della realtà, a pensare a un mondo in continua crescita economica e a investimenti e infrastrutture destinati a sostenerla e incentivarla. È la cultura che consente ai fautori delle grandi opere atti di pura fede come quello secondo cui la caduta dei trasporti sarà arrestata e invertita dalla costruzione di una ferrovia;

c) e c’è, infine, la disperazione di una politica incapace di proporre uscite credibili dalla crisi. I decisori politici sono, a volte, consapevoli che questo sistema non reggerà ma sanno che il suo crollo travolgerà definitivamente e senza prove d’appello la loro credibilità ormai ai minimi storici.

Tutto ciò produce, peraltro, una situazione gravissima, oltre che sul piano economico, anche sul piano etico e culturale come sottolineato, da ultimo, in un documento di straordinaria autorevolezza. Mi riferisco alla enciclica papale “Laudato si’” nella quale si legge tra l’altro:

«I poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono a ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi» (punto 56).

«La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante. C’è bisogno di sincerità e verità nelle discussioni scientifiche e politiche, senza limitarsi a considerare che cosa sia permesso o meno dalla legislazione» (punto 183)».

Quel sistema, poi, fa venire alla ribalta questioni politiche che rimandano alla pretesa dell’economia (e, per essa, delle imprese, dei grandi gruppi finanziari, dei decisori politici) di essere libera da vincoli, ivi compreso il rapporto con le comunità e le persone toccate dalle grandi opere e il rispetto della loro salute e dei loro diritti. Tutto ciò ha evidentemente a che fare con le regole e i princìpi minimi della democrazia. E quando, per garantire questa pretesa, si arriva a dichiarare dei cantieri «siti strategici di interesse nazionale», assimilandoli a installazioni militari e difendendoli con i soldati – l’esercito in tempo di pace! – è conseguente che i cittadini si sentano defraudati dei loro diritti e si convincano che lo Stato ha dichiarato loro guerra.

È appena il caso di aggiungere che un sistema siffatto non può trovare giustificazione in un asserito potere di maggioranza a cui la minoranza dovrebbe comunque sottomettersi in ossequio all’“interesse generale”.

Il Tribunale permanente dei popoli ha più volte messo in guardia – da ultimo in modo particolarmente efficace nella sentenza 23 luglio 2008 sulle politiche delle transnazionali in Colombia ‒ sul sempre incombente pericolo «di una tirannia della maggioranza» prodotta da un consenso elettorale contingente, sottolineando che «la democrazia non consiste solamente in un procedimento elettorale, ma anche in un dibattito pubblico, aperto a tutti i componenti della società e ad ogni cittadino, a garanzia del libero esercizio di tutti i suoi diritti. Solo in questo modo si può edificare e costituire la “ragione pubblica” per la salvaguardia dell’interesse comune».

Ciò, del resto, corrisponde al pensiero dei padri del pensiero liberale, a cominciare dall’aristocratico francese Alexis de Tocqueville che, ritornando da una lunga permanenza in America, nel 183132, alla ricerca delle fonti e delle forme della democrazia, scriveva:

«Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte [...] non sono maggiormente disposto a infilare la tesa sotto il giogo perché un milione di braccia me lo porge. [...] Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere».

Il senso di questa affermazione – e di tante altre consimili – è evidente e sempre attuale. La democrazia non coincide con il principio di maggioranza, che è certamente uno dei suoi cardini ma non l’unico. La maggioranza decide, con il voto, chi deve governare e con lo stesso sistema si prendono le decisioni politiche, che sono, peraltro, frutto di percorsi e confronti necessitati e hanno dei vincoli contenutistici (tanto che alcune costituzioni prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza dei cittadini a fronte di decisioni politiche che violano diritti e princìpi fondamentali). L’assolutizzazione del principio di maggioranza provoca la fuoruscita dal modello democratico nel quale, del resto, diverse funzioni sono guidate da princìpi diversi: bastino gli esempi delle pronunce dei giudici, che sono assunte in base a regole e criteri prestabiliti e non ai desiderata dei più, e del controllo di costituzionalità delle leggi, che è effettuato dalla Corte costituzionale in base a verifiche interpretative che possono condurre alla abrogazione di leggi pur approvate dalla maggioranza e, al limite, dalla totalità del Parlamento).

Dunque, la violazione dei diritti fondamentali delle persone e delle comunità non può essere legittimata da un voto di maggioranza. E del resto, come abbiamo scritto già nel ricorso introduttivo, citando un illustre costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky,

«nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. […] La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione sarebbe meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».

7. Riassumo: l’estromissione dei cittadini e della comunità locale dalla possibilità di concorrere alle decisioni riguardanti il TAV e le grandi opere consimili, la sistematica disinformazione o informazione fraudolenta sui loro presupposti ed esiti, il tentativo di eliminare ogni forma di opposizione con fattispecie giuridiche ad hoc, con la militarizzazione del territorio e con un surplus di repressione penale sono circostanze provate ad li là di ogni ragionevole dubbio. Così come è acclarato, stante l’onnipresenza di questi caratteri, che siamo di fronte non a modalità accidentali e contingenti ma a un metodo, a un vero e proprio sistema di governo di questo settore della vita pubblica e dell’economia.

D’altro canto la possibilità di concorrere alle decisioni che riguardano il proprio habitat, la propria vita e la propria salute e quelle delle generazioni future è considerata un diritto fondamentale dei cittadini e delle comunità anche dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 nella quale, premesso che «è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione», si afferma espressamente – tra l’altro – che «ogni individuo ha diritto a un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge» (articolo 8) e che «ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti» (art. 21, punto 1).

Ciò è stato fissato in maniera univoca dal Tribunale permanente dei popoli, per esempio, nella sentenza 23 luglio 2008 relativa alle “Politiche delle transnazionali in Colombia” laddove, in un passaggio che sembra scritto per la Val Susa e per l’Europa, si afferma:

«il diritto delle donne e degli uomini a essere consultati al fine di ottenere il consenso libero, previo e informato prima di adottare e applicare misure legislative o amministrative che li danneggino, prima di adottare qualsiasi progetto che comprometta le loro terre o territori o altre risorse».

8. Resta peraltro aperto, ai fini del vostro giudizio, un problema grave, che è stato posto in questi mesi e che noi stessi ci siamo prospettati nel momento in cui abbiamo presentato il ricorso (e che abbiamo ripreso anche in una successiva memoria presentata il 1 luglio 2014).

Il problema è questo: le prevaricazioni, le illegittimità, i soprusi in atto con riferimento al TAV in Val Susa e alle altre grandi opere esaminate in questa sessione integrano una di quelle violazioni gravi e sistematiche dei diritti fondamentali dei popoli e delle minoranze e/o dei diritti e delle libertà degli individui che (a fianco dei crimini contro la pace e contro l’umanità) legittimano l’intervento del Tribunale permanente dei popoli ai sensi dell’articolo 2 del suo statuto? O, seppur gravi, restano al di sotto di quella soglia, in un mondo in cui ogni giorno si susseguono crimini immani (dalle stragi quotidiane di migranti, sulle nostre coste, sui nostri mari ed anche sulla terraferma, ai veri e propri tentativi di annientamento di popoli in Siria, in Kurdistan, nel Medio Oriente e nel cuore del’Africa)?

Non è un artificio retorico ma una domanda vera che noi per primi – come ho detto – ci siamo posti, perché siamo partecipi di quei drammi, di quelle tragedie, che, anzi, sono spesso diventati parte dell’impegno e della lotta della Val Susa (da ultimo, per esempio, con il gemellaggio e il progetto di aiuti che ha unito il Comune di San Didero – la cui sindaca, Loredana Bellone, avete avuto modo di ascoltare in questi giorni – con la città di Kobane e la regione del Rojava nel Kurdistan siriano). È, dunque, una domanda vera che non sottovalutiamo, ma a cui crediamo, con convinzione, che debba essere data risposta positiva.

Lo abbiamo scritto fin dal ricorso introduttivo: nella nostra situazione (nelle situazioni europee) «la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale, soprattutto nei primi decenni di attività» ma la vicenda della Val Susa e altre consimili «rappresentano – su scala locale e regionale – la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta» sì da rientrare a pieno titolo tra quelle suscettibili di analisi e di giudizio da parte del TPP. Da un lato, infatti, l’articolo 1, comma 2, dello statuto del Tribunale prevede che lo stesso è competente a pronunciarsi, tra l’altro, «sulle violazioni gravi e sistematiche dei diritti e delle libertà degli individui» senza connotazioni aggiuntive; dall’altro, nel diritto vivente, gli interventi del Tribunale si sono progressivamente estesi sino a ricomprendere situazioni in cui erano dedotte violazioni di diritti di individui e di comunità interne a singoli Stati, assai simili a quella in esame: si veda per esempio – oltre alle decisioni citate nel ricorso – la sentenza 21 maggio 1999 (Examen de la plainte déposée par le collectif “ELF ne doit pas faire la loi en Afrique” contre l’entreprise ELFAquitaine) in cui si legge, tra l’altro, quanto segue:

«I lavori della Sessione del Tribunale permanente dei popoli sulla ELF si sono appoggiati sulla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, che proclama il diritto di questi ultimi alla autodeterminazione politica e ricorda i loro diritti economici, in particolare quello del controllo sulle loro risorse naturali e al rispetto del loro ambiente. Il caso ELF ha rivelato pratiche che ostacolano l’esercizio di questi diritti. […]

Ripensare il ruolo del Tribunale permanente dei popoli nella prospettiva che ne attua il suo mandato originario richiede che si ponga attenzione ai seguenti problemi :

- il modo in cui i fondamenti delle leggi imperialiste – l’equazione tra l’“ordine” e la protezione della proprietà privata – possono essere messi in causa e limitati rappresenta la formalizzazione della liberazione dalla tirannia economica;

- il modo in cui le procedure previste per “dire” e per “ascoltare” dovrebbero essere innovate per dare il primo posto alle voci di coloro che soffrono, nella prospettiva di creare una forma di giudizio sociale contro la criminalità economica delle transazionali».

9. L’impostazione del Tribunale permanente dei popoli – la vostra impostazione – è chiara e non lascia spazio a dubbi. Ma ‒ mi piace sottolinearlo – è convalidata da altri numerosi elementi

Il primo viene non da un fondamentalismo ambientalista ma dalla già ricordata recente enciclica “Laudato si’” del papa di Roma, nel cui punto 95 si legge:

«L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri. Per questo i vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento “non uccidere” quando “un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere».

Attenzione alle parole che, ovviamente, non sono usate a caso! Il divieto di devastazioni ambientali irreversibili che attentano alla vita e alla salute delle generazioni attuali e di quelle future viene inscritto, nientemeno, che nei comandamenti fondamentali: «Non uccidere!» e «Non rubare!». E se così è, emerge in tutta evidenza la violazione di diritti fondamentale collettivi insita nella estromissione delle popolazioni interessate dalle relative decisioni.

In secondo luogo, la logica autoritaria delle decisioni prese su questioni così rilevanti e irreversibili è, a tutti gli effetti, una logica di tipo coloniale come quelle che hanno determinato la gran parte degli interventi di codesto Tribunale. Qual era ed è, infatti, l’essenza del colonialismo se non il dominio dell’Occidente sulle risorse di altri popoli imposto con la forza e con una asserita superiorità etica e culturale dei colonizzatori (donde, come usava dire sir Thomas Watt, responsabile britannico in Sudafrica: «a nessuna considerazione di ordine etico, come i diritti dell’uomo, sarà permesso di sbarrare la strada al dominio bianco»)? Ma non sono questi – ovviamente con i dovuti adattamenti (mutatis mutandis, come dicono i giuristi)  gli argomenti usati nei confronti degli oppositori al TAV e alle grandi opere consimili, considerati alla stregua di ignoranti nemici del progresso, preoccupati solo del “proprio giardino” e magari usi alla violenza, con conseguente legittimità anche della forza (in luogo del dialogo) per ridurli al silenzio? Parlo, ovviamente, di logica, di cultura sottostante, non di gesti concreti. Ed è questo che connette la decisione a cui oggi siete chiamati con le decisioni del Tribunale di decenni fa, relative, per esempio, al Sahara (1979), a Timor Est (1981), allo Zaire (1982), al Guatemala (1983). Nella sua storia  lo sappiamo bene – il TPP si è sempre occupato, con le sole eccezioni della ex Jugoslavia e di Chernobyl (sentenze 20 febbraio e 11 dicembre 1995 e sentenza 15 aprile 1996), di violazioni di diritti avvenute in Paesi extraeuropei. Non per caso ma per la sua origine, legata alla esperienza del colonialismo (come espressamente affermato nella Carta di Algeri del lontano 4 luglio 1976). Nel nuovo millennio, peraltro, al colonialismo classico si sono affiancate altre forme di sfruttamento e di espropriazione dei diritti dei popoli e dei cittadini conseguenti al potere assoluto e incontrollato della forza e della ricchezza. Ed è dunque comprensibile e coerente che il Tribunale si arricchisca di queste nuove competenze, come ha fatto, del resto, quando si è occupato di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale (19881994), di rischi industriali e diritti umani (1994), di diritti dell’infanzia e dei minori (1995), di diritti dei lavoratori dell’abbigliamento (1998).

E c’è una terza considerazione. Le violazioni di diritti di cui ci occupiamo oggi sono certo meno eclatanti di altre ma sono il segnale di quanto ci aspetta in futuro. Nelle società contemporanee, percorse da nuove derive decisioniste e autoritarie accade sempre più spesso che il centro sia cieco e che la verità si intraveda dai margini, dalle periferie, da vicende che riguardano parti limitate della società che anticipano, peraltro, fenomeni di carattere generale. Come hanno dimostrato – tra le altre – le ricerche, ormai classiche, di Enzo Traverso sul nazismo e la sua genesi, la mancata percezione e l’omessa analisi di molti segnali premonitori pur facilmente avvertibili hanno prodotto nel secolo scorso lutti e disastri indicibili. Spetta al TPP, da sempre in anticipo sui tempi, dare il proprio contributo nel ribaltare l’imperante ottica miope e inadeguata e nel denunciare e condannare le violazioni dei diritti fondamentali di quote apparentemente limitate di popoli, anche per evitare che esse diventino un metodo di governo generalizzato della società.

10. È alla luce di tutto questo che sottoponiamo al Tribunale dei popoli le nostre richieste.

Le grandi opere e le pratiche che le accompagnano, in Val Susa, in Italia e in Europa, non esauriscono i loro effetti nella costruzione di una diga o di un megaponte, nell’abbattimento di una foresta o nel traforo di una montagna (già di per sé, talora, produttivi di eventi terribili, come dovrebbero ricordare, nel nostro Paese, i 1.9l7 morti della tragedia del Vajont del 1963, rimossi dal dibattito sulle grandi opere) ma incidono – come l’esperienza di questi anni insegna – sui meccanismi complessivi di funzionamento delle istituzioni e della stessa democrazia. Per questo noi – e con noi le comunità di Notre Dame des Landes, di Londra, Birmingham e Manchester, di Rosia Montana e Corna, dei Paesi Baschi di Francia e di Spagna, di Stoccarda, di Venezia, di Firenze, della Basilicata e delle regioni d’Italia interessate ai progetti di trivellazione, di Messina, di Niscemi e di tante altre parti d’Italia e d’Europa  chiediamo al Tribunale permanente dei popoli di dire, con l’autorevolezza che le conferiscono la sua storia, la sua composizione e la sua indipendenza:

- che in Val Susa sono stati violati i diritti fondamentali degli abitanti e della comunità locale ad essere correttamente informati e a partecipare, direttamente e tramite i propri rappresentanti istituzionali, alle decisioni concernenti la progettazione e la realizzazione della Nuova linea ferroviaria TorinoLione (nota come TAV), decisioni cruciali in quanto incidenti sulle risorse naturali, sull’ambiente, sulla salute e sulla stessa aspettativa di vita delle generazioni attuali e di quelle future;

- che tale violazione è stata realizzata con deliberate omissioni (in particolare il mancato coinvolgimento della comunità locale e dei suoi rappresentanti istituzionali nelle decisioni concernenti la nuova linea ferroviaria, l’omessa attivazione di procedure di effettivo confronto e concertazione, la mancata previsione di ricorsi giurisdizionali adeguati contro l’estromissione dei cittadini dalle decisioni anzidette) e con comportamenti attivi (in particolare la manipolazione dei dati relativi all’utilità e all’impatto delle opere, nonché l’elaborazione al riguardo e la conseguente diffusione di informazioni, previsioni e dati inveritieri e/o scientificamente infondati su caratteristiche, utilità e ricadute dell’opera; la predisposizione di provvedimenti legislativi tesi a escludere la partecipazione e a criminalizzare le manifestazioni di protesta; l’adozione di prassi e interventi amministrativi e di polizia caratterizzati dalla stessa finalità e giunti fino al controllo del territorio con l’esercito e a un uso sproporzionato della forza nei confronti di oppositori e manifestanti talora anche grazie ad appositi provvedimenti legislativi, al controllo militare del territorio e all’intervento massiccio degli apparati repressivi (con significative limitazioni di diritti dei cittadini costituzionalmente garantiti);

- che a realizzare questa violazione hanno concorso i gruppi proponenti dell’opera, le società incaricate della sua realizzazione e i governi nazionali succedutisi negli ultimi due decenni (che hanno agito direttamente e tramite funzionari preposti ad articolazioni fondamentali come l’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione) e che la violazione è stata consentita o agevolata dalle competenti istituzioni europee (commissario designato dalla Commissione europea a Coordinatore del Progetto Prioritario TENT n. 6 e Commissione Petizioni del Parlamento europeo) con l’accettazione acritica dei progetti predisposti dai proponenti e dai governi, con la mancanza di adeguati controlli e con l’omessa considerazione delle istanze provenienti dalla comunità della Val Susa e dai suoi tecnici;

- che il sistema accertato con riferimento alla Val Susa è espressione di un modello di governo del territorio e delle dinamiche sociali di stampo neocoloniale fondato sulla pretesa di lobby economiche e finanziarie nazionali e sovranazionali e delle istituzioni con esse collegate di disporre senza limiti e senza controlli delle risorse del territorio estromettendo le popolazioni interessate (considerate portatrici di interessi particolaristici e non apprezzabili);

- che tale modello di governo è ormai diffuso in Italia e in Europa, come dimostra la gestione delle numerose vicende esaminate in questa sessione e in particolare, per limitarsi alle più rilevanti, di quelle dell’aeroporto di Notre- Dame-des-Landes in Francia, della miniera a cielo aperto di Rosia Montana in Romania, della linea ferroviaria “Y basca” in Spagna, del ponte di Messina, delle dighe del Mose a Venezia e delle trivellazioni per la ricerca di idrocarburi in diverse regioni d’Italia;

- che tale sistema è in palese contrasto con le prescrizioni di numerosi trattati e atti internazionali (in particolare, della Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, che prevede, in materia ambientale, una «informazione adeguata, efficace e tempestiva», la partecipazione effettiva dei cittadini ai lavori «durante tutto il processo decisionale» e l’obbligo delle istituzioni competenti di «tenere adeguatamente conto dei risultati della partecipazione» dei cittadini), viola i fondamenti della democrazia partecipativa (conseguente alla affermazione, presente nella gran parte delle costituzioni occidentali, secondo cui «la sovranità appartiene al popolo») e mette a rischio, anche nel cuore dell’Europa, i princìpi fondamentali affermati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

Ho concluso. Nel consegnare al Tribunale permanente dei popoli queste richieste avverto l’inadeguatezza delle mie parole per descrivere la gravità delle violazioni di diritti fondamentali connesse con il sistema delle grandi opere e i guasti da esso prodotti (e ancor più suscettibili di essere prodotti) nel governo delle società e nel rapporto tra i grandi poteri economici e finanziari e i cittadini. Mi solleva la convinzione che quanto io non ho saputo dire vi sia stato trasmesso dalla tensione, dall’intelligenza, dalla passione, dal rigore di quel frammento di comunità che avete avuto modo di conoscere in questi giorni.

Torino, 7 novembre 2015